La palla rossa del sole illuminava il mondo.
Eserciti marciavano alla testa di soldati.
Fresche le loro carni, gelidi i proiettili che li divoravano.
Una specie aveva alzato la testa dalle profondità del cosmo e ora la guerra giungeva a schiacciare la sua testa bassa in una trincea.
Strisciavano nel fango ebbri di non sa quale ebbrezza di distruzione e di autodistruzione, cercavano la grandezza in un mondo in cui erano confinati a essere piccoli, o se erano piccoli.
Un giorno si accese una stella, una stella diversa dalle altre.
Una stella diversa?
No gli astronomi cinesi l'avevano individuata era la stella polare dell'orsa maggiore.
Dicono che dalle stelle non arriverà nulla, eppure tutto arriva da lì.
Ebbe una oscillazione, e da quella oscillazione invisibile a tutti uno sconvolgimento prese il mondo.
La guerra imperversava e gli eserciti marciavano perché il sole rosso era acceso e il suo campo li portava a combattere.
Dai deserti passavano silenziosi cacciabombardieri, nell'alto dell'atmosfera uno sthealth prendeva rifornimento da un aereo cisterna che lo aveva agganciato.
Di colpo un elettricità silenziosa avvolse i corpi degli uomini che si ritenevano acciaio, quando i loro cuori erano teneri germogli bisognosi della pioggia delle stelle per germogliare e ricordare.
Di colpo tutti furono presi da un fremito di un ricordo.
Da sempre l'umanità s'era evoluta incapace di cogliere il moto profondo al di fuori del cuore della terra per giungere a erigere monoliti di metallo e città.
Di colpo l'umanità ricominciò a ricordare il principio, il principio.
Tutti ricordarono la stella del principio, la stella del principio.
Sognarono le vecchie albe e i vecchi tramonti, il suo cielo violetto e il sole che splendeva lontano dai loro deserti.
Il profeta gli aveva promesso il paradiso su quella stella e loro avevano costruito vascelli per attraversare le nere distese.
Erano piovuti su quel pianeta e furono colti da sgomento, il paradiso promesso era in realtà un inferno.
Vi erano giunti fra fiumi di lava e foreste incolti, i dolci frutti degli alberi del loro pianeta erano così diversi da quelli di questo.
Se ne erano dimenticati oramai da molto tempo, e lo ricordavano attraverso strani miti.
Di colpo tutti ricordarono la dolcezza dei frutti degli alberi del pianeta da cui venivano.
Era solo una nostalgia di un gusto, un sapore di dolcezza così concreto e forte, l'unico ricordo che essi sentivano di avere.
Ma quella dolcezza gli conquistò il cuore.
Lo sthealt volava sui deserti del Sinai e dell'Egitto nella culla dell'umanità.
Di colpo il pilota si sentì guidato da una forza più grande di lui mentre il sole sorgeva rosso dalle sabbie dell'Arabia, il pilota sentiva di colpo di essersi riorientato, aveva percepito il nord cosmico della stella polare e adesso percepiva l'oriente e i suoi paradisi lontani di frutti dai gusti inesprimibili, di dei dalla testa allungata, di strani nomi pensieri e parole, e mentre egli sentiva l'ebbrezza del volo radente fra le dune che fuggivano a velocità folle sotto lo scafo del suo velivolo la nostalgia saliva con il sole che emergeva dalle sabbie.
E tanto più saliva tanto più il suo Signore prendeva il controllo della sua mano sulla cloche che lo spingeva ad atterrare.
Passò radente alle piramidi ed ebbe solo la sensazione che quello fosse il giro della boa.
La sua mano virò di nuovo verso oriente verso il sole che nasceva dalla terra d'Arabia, vane e inutili le piramidi erano solo monoliti eretti nella prima hybris della civiltà, essi credevano di fare ponti con il cielo ma essi avevano dimenticato.
La sua mano guidata dal suo Signore guidava verso oriente.
Egli traversò il Mar Rosso come Mosè e il suo popolo, egli colse il senso di quel passo scritto tanto tempo fa sotto le piramidi.
I deserti dell'Arabia si affacciarono di nuovo nella loro disarmante e desolante bellezza di fronte ai suoi occhi accecati dalla luce.
Rallentò, rallentò, rallentò la sua corsa folle mentre il suo scafo volava alto ai confini del cielo dove l'azzurro dell'atmosfera ai confini del nero spazio fanno apparire ancora più brillante il sole e puoi vedere le stelle di giorno.
Il fulgore del firmamento e quello del sole accecavano i suoi occhi, ma la sottile invisibile vibrazione dalla stella polare era dolce, dolce, dolce più delle arsure del mondo, del suo fuoco, del suo metallo delle membra corrucciate nell'ombra del dolore, della malattia, dell'oblio, della rabbia folle che voleva distruggere quel mondo.
Più dolce, più dolce di ogni cosa mai sperimentata prima.
''Normale, normale, normale, pienamente normale'' si disse, ''che noi uomini lo odiamo e ci odiamo e lo vogliamo distruggere.''
Atterrò nell'Oman senza un motivo preciso, ivi il deserto era semplicemente una distesa di pietre piatta che consentiva al suo velivolo di prendere contatto con la terra, gradatamente atterrò non con una certa difficoltà rovinando il carrello e mettendosi a sfrigolare di scintille rosse fra le pietre che sfasciavano gradualmente la base dell'aereo rendendolo inservibile.
Era ipnotizzato dalla nostalgia e non si curava più di nulla mentre il suo aereo sobbalzava in un elettroshock di vibrazioni violente per il contatto con il terreno accidentato, il suo cervello era ebbro della dolcezza della stella polare che lo guidava nel dolore e nel terrore mentre sobbalzava esausto come abbandonato a una forza esterna che lo faceva tremare violentemente, mentre rallentava fra il fuoco delle scintille dello scafo che si distruggeva nella valle desolata.
A un certo punto si fermò, fumante e incandescente fra i deserti accecanti e caldi dell'Arabia.
Scosso.
Nel senso fisico e mentale del termine.
Non è semplicissimo atterrare non su una pista ma su quel terreno, ma ci era riuscito.
''E' sempre così il vero ritorno, il ritorno all'origine, alla terra vera, non è uno scherzo, i cieli azzurri sono più comodi'' pensò.
E si stagliavano sopra di lui come un enigma azzurro, come un enigma pieno di dolore e di dolcissima ma lancinante nostalgia.
Questa per lui era come una sorta di nascita.
Era vivo infatti, mai così vivo.
Uscì dal velivolo.
Il sole oramai stava declinando verso occidente, immalinconendolo ulteriormente.
''Questi raggi rossi tingono di rosso un mondo di fuoco e sangue, la disarmante bellezza di un curioso inferno, sospeso fra i sospiri incomprensibili delle stelle, fra i gemiti di nuvole che disegnano alfabeti ignoti'' pensò.
Lo guardò come se gli fosse del tutto estraneo, perché nei fatti lo era.
Ne era solo più consapevole ora.
Si trovò solo, solo, solo come era sempre stato.
Solo come una pietra stupida che nella luce del tramonto del deserto è capace solo di gettare ombre e dubbi sul suo passato e sul suo destino.
Che crudeltà.
Solo in mezzo ai cieli, solo in mezzo agli umani, solo in mezzo agli abbracci, solo, del tutto solo, solo che ora la distesa di pietre aguzze sogghignava come i denti di una bocca che lo divorava di quella solitudine.
Era un uomo.
Capita così agli uomini.
Capita così da sempre.
O meglio, non da sempre.
Da quando sono venuti qui.
Venne la sera, e la mezzaluna si innalzò sul deserto.
Camminava a passi incerti nella notte calda, chiedendosi che cosa ne aveva fatto di lui quella pazzia che lo aveva spinto ad atterrare lì.
Che triste il crepuscolo e la solitudine, tu uomo con il tuo ingegno non puoi arrampicarti sul firmamento per tornare da dove sei venuto, puoi al massimo distruggere e lanciare il fuoco, e godere sogghignando del fuoco che brucia fra le città tormentate cui hai consegnato le tue bombe, come braci, come ceneri rosse di un inferno che brucia solitario e stupido.
Sogghigna creatura disperata, sogghigna mentre cerchi riparo nella morte.
Non tornerai comunque alla tua stella.
Non sarà il seno di tua Madre.
Eppure lui sentiva la Presenza.
La Presenza del suo Signore.
La Luna lo guidava per mano.
Mentre la sete lo stritolava, lui ebbe paura, si sentì fragile quale fragile uomo egli era e non comprese neanche bene la necessità di mostrare una forza che non gli apparteneva.
Cadde in ginocchio in preda ai fumi del deliquio dopo aver camminato per ore alla luce della Luna.
Si sentiva impaurito, molto impaurito.
Si sentiva quello che era.
Un bambino solo e disperato che piangeva perso perché non riusciva a ritornare a casa.
Ma la Luna lo prese per mano e lui in mezzo alla sabbia vide l'acqua e l'albero misterioso.
Il genesi?
Una volata fredda dal cielo, e la stella polare lì ad indicargli l'albero.
La fine è un nuovo principio.
Ebbe di nuovo paura.
Era forse un allucinazione, un sogno causata dalla sete e dalla disidratazione?
Aveva fame e sete e l'albero aveva dei frutti strani che non aveva mai visto sulla terra, aveva delle foglie strane che non erano di questo mondo, un ''profumo'', quel ''profumo'' e mangiò dei suoi frutti.
Oblunghi e ricurvi, l'albero aveva una forma con una strana simmetria aperta come un ombrello apertoall'incontrario, quasi a cogliere la pioggia invisibile delle stelle e a portarla nei suoi frutti.
Quell'albero non era di questo mondo.
Nel momento che ne mangiò il sapore di quel frutto fu innominabile.
Una dolcezza che stava ai frutti della terra come l'everest a uno scoglio in mezzo all'oceano.
Quanto era andato in alto e quanto si sentiva profondo, larga la dolcezza del cosmo, profonda e ampia come gli oceani.
La sopra qualcosa si era rovesciato nella sua calotta cranica cambiandone definitivamente il contenuto.
Ringrazio Dio, ringraziò di essere vivo lì in quel momento.
Ora si sentiva diverso.
La rabbia la fame la sete erano spente e anche la solitudine.
Egli sentiva la bellezza di ogni abbraccio e avrebbe carezzato ogni mano, ogni fronte ogni capello.
Perduto non c'era più nulla e nessuno, egli li teneva per mano tutti con lui.
Gli si aprì il cuore.
La dolcezza, la dolcezza lo aveva rapito lontano a estasi infinite.
Ora sentiva di essere ritornato uomo.
Sentiva anche che se tutti ne avessero mangiato la guerra sarebbe terminata all'istante, guardò la stella polare e comprese che era lì l'origine.
Il suo cervello tornò allo stato dell'eden primigenio e comprendeva in pace, e accettava in pace sicuro finalmente della propria forza, non più da dimostrare in guerre vane e scienze non proficue.
Aveva il frutto in mano e ora sapeva qual era il suo compito.
Se avesse portato quel frutto all'umanità, e piantato e curato quei frutti e fatto crescere quegli alberi, se fosse riuscito a riportarlo all'umanità la guerra sarebbe finita e il Signore rispettato avrebbe riscaldato i cuori degli uomini al ricordo vago dell'eden primigenio.
Ne mangiò a sfinimento.
Il suo cuore traboccava di gioia.
Era quel sapore.
Si caricò dei frutti per portarlo ai suoi fratelli.
Poteva morire fra le sabbie del deserto prima di raggiungere i suoi simili, ma sarebbe morto felice.
Il suo Signore era con lui.
Le stelle guidavano i passi incerti dei suoi piedi scalzi alla flebile loro luce.
La stella polare lo guidava dal suo cuore.
La notte e la paura finalmente non lo lasciava più solo, quella dolcezza, quella dolcezza lo avrebbe guidato.
Bravi Simo ...Bravissimo
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