giovedì 17 agosto 2023

Il lavoro , l'anomia e il lockdown

 Ci tengo a esplicitare alcune riflessioni.

Adesso è in voga una filosofia che in qualche modo attacca il ''lavoro'' in quanto valore ''fondativo'' della nostra società.

Io cerco di dire la mia analizzando che cosa è diventato il lavoro, che cosa è stato e perché rischia effettivamente di ritorcersi contro l'uomo.

Qual è l'antitesi del lavoratore come figura storica per me?

Il ''disoccupato''?

Il ''fancazzista''?

Il nobile signore che può permettersi di non lavorare, perché è ricco e nobile? (figura desueta al giorno d'oggi la mistica del lavoro è talmente potente che tu ti ritrovi gente ultraricca che compete con te pur non avendo necessità di guadagnare quei soldi).

L'ultimo è forse il più vicino a ciò che io credo sia l'antitesi del ''lavoratore''.

L'antitesi storica del lavoratore è il filosofo.

Per me.

Che è stato tendenzialmente qualcuno sufficientemente abbiente da condurre una vita di osservazione e non di azione e in cui l'azione tuttavia lo abbia preso nel suo lato più intimo e mentale.

Grandi inventori, grandi scienziati, filosofi, i grandi del pensiero, erano ''lavoratori''?

La risposta è NO.

Alcuni meno abbienti di altri si sono  arrangiati a trovarsi un occupazione con cui avere di che vivere, ma di fatto tutti costoro avevano un minimo comune denominatore: ''molto tempo libero''.

Se noi vogliamo tirare un primo proiettile contro il concetto di ''lavoro'' moderno dobbiamo renderci conto che l'eureka di Archimede è stato pronunciato mentre ''cazzeggiava'' si direbbe oggi, alle terme.

Idem per la mela di Newton che lo ha colto in un momento di evidente ozio.

Einstein più moderno si è arrangiato con un lavoretto burocratico che lo impegnasse poche ore al giorno, ma non ha consegnato il senso della sua esistenza al fatto di mettere timbri, né si è lasciato abbattere dalla sua insignificanza, ha approfittato del tempo libero che gli regalava per analizzare la realtà.

Nessuno di questi tre fisici faceva il ''fisico'' di ''lavoro''.

Tutte le conquiste della storia del ''pensiero'' appartengono alla dimensione dell'ozio.

E questo toglie qualcosa al concetto di ''lavoro''?

No.

Non è che se tu metti dei mattoni per terra sei inutile, no sei necessario, certo che lo sei...

Però restituisce utilità all'ozio, ripristina in qualche modo una certo qual valore alla fisiologia dell'ozio nel processo cui l'homo sapiens si è autoinvestito: ''comprendere e dare un senso alla realtà''.

La modernità vive di dinamiche differenti ''ciò che tu sei è ciò che tu fai''.

(Non il contrario che semmai è più vero, ciò che tu fai è ciò che tu sei).

Qualifiche, titoli, specializzazioni ineriscono alla dimensione del lavoro.

I patronimici nobiliari sono andati in pensione, meglio fregiarsi di un dott. ing. cav. figl. de putt. lup mannar. di fantozziana memoria.

La rivoluzione industriale ha sparigliato le carte in una maniera che è necessario, compiere un ''lavoro'' per analizzare il significato nuovo di queste, le piccole grandi bugie, che si celano dietro.

Primo step.

Ok nessuno dice che il lavoro non sia in qualche modo ''necessario'', ma in che senso?

I soldi?

Sicuro.

Per la carità.

Ma diciamocela tutta, qui è un pò come quando la gente non fa figli trincerandosi dietro il fatto che non ha soldi sufficienti a mantenerli, e tu rispondi, il punto è che ''sono i poveri a fare figli, mica i ricchi''.

La società moderna industriale va sbugiardata quando si trincera dietro la foglia di fico della dimensione della ''necessità'' , le sue dinamiche ineriscono si a necessità, ma non del tipo precedente, di tutte le società mai esistite è quella che garantisce meglio e di più la sopravvivenza fisica, il cibo, riscaldamento.

Ergo non è scomparsa la dimensione stringente e violenta della ''necessità'' è pieno di gente che dorme per strada, però la necessità fisica, è ridotta e non può né deve essere utilizzata come foglia di fico per non guardarci come siamo fatti realmente.

Ha preso strade più astratte, più psicologiche, senza la consapevolezza di ciò.

Tu lavori perché si non hai soldi per poterti permetterti di stare a casa?

Ma siamo sicuri che ce li avessi staresti a casa?

Il punto è che ''stare a casa'' anche ammettendo la necessità di una ''casa'' non piace.

E' distruttivo.

E' angosciante.

Ci si rende conto della vuota natura del tempo.

Ci si sente inutili.

Si vivono con maggiore violenza la pressione delle domande che ti scoppiano in testa.

Si pensa (cosa cui la nostra epoca cerca ACCURATAMENTE di evitarti).

Si ricorda.

Si immagina il futuro.

Ci si chiede che fine ha fatto quella persona o quell'altra.

Che fine faremo noi.

E' pesante.

Più di una giornata di lavoro.

Perché infatti, tu mica non fai nulla, tu agisci nella tua mente.

Oddio c'è chi proprio non fa nulla anche nella sua mente.

Il ''lavoro'' è cambiato.

La prima reale concreta necessità del lavoro al giorno d'oggi non è il piatto di minestra, è strapparti alle grinfie dello ''stare a casa'' con tutte le conseguenze del caso.

E' una necessità psicologica.

Devi tacitare quelle voci chiamate pensieri ricordi, fantasmi del passato, angoscia del futuro e nel caos lavorativo ci riesci perché sei sempre sballottato da un problema diverso pressante, stancante che in qualche modo esaurisce le tue energie fisiche e mentali, diminuendo l'energia che tu puoi dare in pasto ai fantasmi della tua mente.

Ma io te lo sto descrivendo quindi come una cosa negativa?

Non necessariamente, sto solo invitandoti a smetterla di mentire.

Dovendo fare una metafora sembrerebbe il processo di un runner.

Io corro.

Conosco bene la necessità fisiologica della mia MENTE, così tormentata dal pensiero, di liberarsi attraverso un processo in cui vive la forza del corpo, la sua stanchezza, il sole, la sete, il caldo, la salita che ti taglia le gambe fino a che sei sfinito.

Mai comunque a sufficienza da smettere di pensare del tutto.

Pensi solo in un modo diverso, più libero.

Il punto è che anche il runner più runner non corre mai tutto il giorno.

Quindi non può arrivare mai all'estremo del lavoro.

Il lavoro poi, al giorno d'oggi, essendo svincolato spesso dalla fatica fisica è proprio in ragione di ciò esteso a orari che diversamente la popolazione lavorativa, e i cosiddetti ''workaholic'' i drogati di lavoro, non potrebbero reggere.

La corsa è una metafora, ma imperfetta, è un lavoro FISICO autoimposto, è un qualcosa che quando hai finito la benzina ti fermi e stop senza troppe ansie o sensi di colpa perché ti sei fermato, è il tuo corpo che ti dice stop.

Un conto è correre 10 ore al giorno un conto è lavorare 10 ore al giorno.

E' ipocrita e assurdo vantarsi di lavorare 10 ore al giorno, mica sollevi pesi 10 ore al giorno, se fai un lavoro fisico tuttavia, questo vanto avrebbe un suo perché.

Perché è veramente concreto e oggettivo.

Diversamente una scrivania non può definire in modo obbiettivo il livello di sforzo di ciò che stai facendo.

Se vinci la maratona di New York hai ragione a vantarti, se invece lavori dieci ore al giorno io non so quanto credere al livello del tuo sforzo, ne posso paragonarlo in modo obbiettivo ad altri.

Dipende dal tuo concetto di lavoro.

Il lavoro essenzialmente così come è concepito al giorno d'oggi cerca di dare alla dimensione della necessità fisica il compito di esaurire delle necessità psichiche.

Ma è proprio qui il punto.

Il punto è che il ''lavoro'', se prolungato, esteso a dei lunghi orari entra perfettamente all'interno di una tipologia di personalità che diventa il vero nucleo di pericolo della società moderna:

''La personalità asociale camuffata da prosociale, la disgregazione di qualsiasi forma sana di socialità e del corpo sociale.''

Durkeim il sociologo, da un nome a questo tipologia di male moderno e lo definisce ''anomia''.

Tuttavia sbaglia analisi a mio avviso, e attribuisce questa forma di sostanziale malessere alla ''assenza di leggi e regole morali'' provocata dallo  stress del ''cambiamento continuo'' del mondo moderno.

E no.

Gli attribuisce la colpa dell'incremento del suicidio e del crimine violento.

E si su quello ha ragione

In parte ha ragione.

Quando identifica il cambiamento continuo come qualcosa che spiazza l'umanità ha ragione.

Non è qualcosa che ci fa bene.

Peccato che il cambiamento continuo che nella modernità viaggia a velocità folli rispetto al passato sia una legge di natura cui nessuna epoca è stata esente.

Non viaggiava a questa ''velocità''.

Ma il punto non è questo.

A disgregare il corpo sociale non è l'assenza di norme, anche di natura morale dettata dal cambiamento, a disgregare il corpo sociale è il ''lavoro moderno''.

Il porre in essere tutta una serie di logiche e norme comportamentali destinate alla ''funzionalità'' del ''lavoratore'' a favore del ''lavoro'' ma a scapito delle norme morali anche vigenti in quella società.

La logica del ''lavoro'' impone di porre le dinamiche del tuo ''lavoro'' al di sopra delle dinamiche della tua società, cominciando dall'ignorare i tuoi affetti e le persone che ti stanno vicino, le loro necessità, usando la scorciatoia del lavoro come ''nobile causa'' universalmente (e ipocritamente) riconosciuta.

E se ignori le necessità di chi ti sta vicino, come puoi accogliere quelle di chi ti sta lontano, come puoi prestare attenzione al barbone che giace in mezzo alla strada, diamine TU HAI UN LAVORO, TE LO SEI SAPUTO MANTENERE SEI SUPERIORE A LUI E NON HAI TEMPO PER LUI.

Se dovessimo definire la parabola del ''buon samaritano'' in termini di lavoro concepito in termini moderni, il lavoro così come oggi è inteso è lontanissimo dalla concezione ecclesiastica dell'ora et labora, della concezione antica, anche cristiana, è la sua antitesi.

E' che lo scriba e il fariseo sono delle persone di successo, dei bravi lavoratori che ''hanno fretta'' perché il ''sinedrio'' e altre ''nobili istituzioni umane'' li attendono, quindi passano sopra al malcapitato senza prestargli attenzione, il ''buon samaritano'' è un ''disoccupato'', magari uno ''statale fancazzista'', una persona poco integrata nella società che dunque ha il tempo di fermarsi e soccorrere il malcapitato.

E nella realtà della parabola originale è proprio quello il punto: non ha un valore per la società e in virtù del suo non valore egli dedica all'altro il suo tempo e le sue energie.

Ora.

La logica che soggiace la perdita di norme di cui parla Durkeim è insita in questa contraddizione, tra il tentativo di carpire il favore del ''corpo sociale nel suo complesso'' e il tentativo di ''carpire il favore del singolo''.

Tra interazione come gruppo sociale complessivo, con gerarchie e norme collettive, e interazioni fra singoli individui e microgruppi sociali dotati di norme autonome.

Nella società moderna il ''lavoro'' carica tutti di un peso per ''compiacere la società'' che finisce per dividere i singoli per privarli delle loro relazioni personali.

La più ignobile forma di mancanza di rispetto che serpeggia al giorno d'oggi si chiama ''non ho tempo per te''.

E' questa la pietra tombale del corpo sociale, il crimine contro l'umanità non dichiarato.

La forma più bieca di nascondimento del proprio egoismo.

Uomini e donne sorridenti e molto impegnati ti tagliano ogni possibilità di interagire con loro, dicendoti non ho tempo, dando l'ignobile compito di mostrare la loro indifferenza, al sacro lavoro.

Ma il fatto è che non necessariamente sono dei totali ipocriti.

E' il ''lavoro'' che li guida a questa ''anomia''.

Di giorno in giorno, essi maturano la convinzione che sia il lavoro a conferire un senso alle loro esistenze, e di giorno in giorno, essi trasportano nei loro posto di lavoro e nelle relazioni umane che ci sono in esso il valore delle loro vite.

Perdendo di vista non solo gli altri, ma proprio il mondo intero.

Fuggono dalla realtà.

Si illudono di avere un senso, di essere importanti, si inorgogliscono, si insuperbiscono, si sentono una casta a parte dal resto dell'umanità, che dunque guarda con disprezzo agli altri, ah si, ''io mica ho il tempo''.

E' la mistica del ''fare le cose'' anche e sopratutto se non sono necessarie.

L'importante è ''fare''.

Indipendentemente dagli effetti.

E così la gente è talmente drogata dal lavoro che appena ha una settimana di ferie, va in ''vacanza'', magari al villaggio turistico, mica sta a casa, se no diamine che vacanza è?

Noi avremmo bisogno di una vacanza da noi stessi diceva qualcuno...

Ecco il lavoro, la società in generale è una suprema eterna vacanza da se stessi e dal mondo un' ignoranza della legge spietata che lo domina che ti diventa reale quando sei fermo, non quando sei in movimento.

Volontariato, vacanze, fiumi di turisti cretini che premono per un lembo di acqua di mare, anche fuori dal ''lavoro'' vale la logica anomica della società moderna, muoversi fare, disfare, per la semplice realtà che sedere può essere sgradevole.

Il buon samaritano di oggi sarebbe il volontario inquadrato?

No.

Il buon samaritano è chi ha tempo per te, chi prende una birra assieme, chi si fuma una sigaretta assieme nelle pause di quel cazzo di lavoro, chi ti risponde al cellulare, chi usa il cellulare per telefonarti e non per ignorarti.

Il lavoro oggi come oggi è solo fuga dal mondo e da sè stessi.

Cosa è stato il lockdown se non il vero disperato bisogno di una società agonizzante in virtù non solo del ''lavoro'' ma dell'anomia, di fermarsi, e di fermarsi a casa propria, non in un villaggio vacanze o altre contraffazioni che ''tengano impegnati''?

Il lockdown non aveva nulla a che fare con il virus, era il mondo che prendeva la palla al balzo per fermarsi a guardare che cos'era diventato.

Era una vacanza da quell'eterna vacanza a noi stessi che è diventato il mondo, lavoro compreso, e villaggio vacanze finalmente vuoto.

Un obbligo morale a sedere solo con te stesso senza fare nulla.

In casa.

Non nel villaggio vacanze o nelle fintosocialità dei bar.

Proprio per spazzare via ogni residuo di finzione di ''essere in compagnia'' o fianco di ''appartenere realmente a una qualche forma di gruppo sociale piccolo o grande.''

Fai il bene della collettività se siedi solo con te stesso , ma mica per il virus, tutti gli uomini più grandi che hanno beneficiato l'umanità lo hanno fatto dopo aver seduto soli con se stessi.

Non solo scienziati, tutti, Buddha, Cristo, Tesla, Cartesio.

Ecco cosa è stato il lockdown, una necessità psichica ancora una volta camuffata da una necessità fisica, forse che cento anni fa lo hanno fatto con la spagnola?

No.

Ma non ce n'era evidentemente la necessità psichica.

Ergo il mondo è peggiorato.

Il dramma della modernità è che la tecnologia ha preso l'ozio antico e ha consegnato tutte le sue virtù dolorosamente terapeutiche nel cesso degli smartphone.

Di un ozio a binari precostituiti che non ti da la possibilità di essere veramente solo con te stesso e gridare eureka mentre sei alle terme o sotto un albero che ti cade una mela in testa.

Si parla di capitalismo, di anomia, in termini definiti da sociologi e filosofi dell'ottocento quando si c'erano ancora grandi uomini in grado di pensare e vedere il mondo intorno a loro.

Dobbiamo criticare i mali moderni comunque utilizzando una fraseologia e una concettualizzazione tipica di questi comunque grandi uomini dell'ottocento.

Ma non siamo più nell'ottocento.

E il capitalismo, l'anomia hanno preso dei panni che non sono neanche ''diversi'' sono semmai più vicini alle motivazioni autentiche per cui si muovevano cento o duecento anni fa.

Ha ragione Durkeim, suicidio e omicidio dipendono dall'anomia, ma sbaglia su questo concetto.

Il problema è la rabbia dell'individuo, il suo accogliere il divario fra le norme espresse in modo esplicito, e quelle di prassi dettate dalla quotidianità.

Non è un problema di mancanza di norme NO.

Noi siamo pieni di norme, imbottiti di norme, di morali e di moralisti di ogni tipo e specie.

E la contraddizioni tra quelle ''norme'' e la ''prassi quotidiana''  l'anomia. 

E più questo mondo si industria, tira fuori nuove norme, nuove morali, e più si dimentica del problema di fondo.

La relazione fra individui.

Le leggi elementari che ti mettono a confronto con un tu individuale sono diverse da quelle che permeano il branco.

E non è ipocrisia in sè e per sè.

E' una delle discrepanze umane.

Di cui ti rendi conto ogni volta che sei solo con qualcuno.

O con te stesso.

Si, bloccare il lavoro, con tutta la sua mistica sarebbe una gran cosa.

Catastrofi pandemie e guerre sono le uniche incaricate a compiere un tale nobile scopo?

Ma perché?

Non ne potremo fare a meno senza bisogno del virus o dell'atomica che ci esplode in testa?

A quanto pare no.

Siamo ancora troppo fragili per poterne sopportare le conseguenze per potere essere sufficientemente onesti con noi stessi.

Dobbiamo sempre dare la colpa a qualcosa o qualcuno delle nostre mancanze nei confronti di questa pseudomorale collettiva.


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