sabato 16 dicembre 2023

Contro la neolingua: parla come mangi!Zitti webeti!

 Italia 2023

Proliferano tutta una serie di nuovi termini atti a definire la realtà moderna.

Le riviste pazientemente ce li spiegano e passano in rassegna.

Ghosting, gaslithing , sexbombing, benching, sexting, manspreading.

Cosa vogliono dire?

Che il vostro interlocutore che li usa  è un idiota.

E basta.

Il linguaggio dovrebbe essere un punteruolo, un escavatore per tentare di penetrare in quella cosa misteriosa chiamata realtà. 

Inutilmente i linguisti se interpellati ci spiegano che non c'è nulla di male nel prestito anglosassone il linguaggio è una  cosa fluida e si evolve.

Già. 

Non c'è nulla di male nel prestito anglosassone. 

Sono d'accordo. 

C'e' invece qualcosa di molto negativo nella neolingua anglosassone concepita come categoria internettiana.

Il linguaggio così utilizzato, questi neologismi sono solo scatole di cartone in cui infilare tutta la realtà.

Chi sono quelli che usano questi termini?

Gli straccioni del pensiero.

I barboni del raziocinio.

Ma cosa diamine ti inventi il ghosting?

Si, i social hanno reso più dura la realtà. 

Anche una volta ci si lasciava però ora whatsapp acuisce la ferita.

Si, non risponde su whatsapp.

Va bene.

È ghosting?

 C'è un problema.

La scatola di cartone del termine.

Cosa vuol dire ghosting?

È implicito: ha un accezione negativa.

Ma...

Specifico, se una sconosciuta dopo due giorni di conversazione amabile su Tinder sparisce... è frustrante...d'accordo.

Ma se a non rispondere è  la donna con cui avete condiviso dieci anni della vostra vita è la stessa   cosa?

Ha lo stesso valore di frustrazione, di sofferenza?

Ovvio che no.

È questo il problema di questi neologismi, sono scatole di cartone in cui ci sta l'oro e la merda assieme, non vogliono dire nulla perché si riferiscono ad una app, ad un comportamento su una chat, ma escludono la realtà al di fuori.

Ti lasci?

Vuol dire qualcosa.

È doloroso.

Ti ghosta....

Ok dopo 10 minuti di conversazione appena conosciuta su tinder sparisce.

Ok frustrante.

Frustrante l'app.

Il ghosting cos'è però? 

Puoi mettere sullo stesso piano la sconosciuta della roulette online con una donna che ci sei stato assieme 10 anni?

A quanto pare si.

Dopo 10 messaggi o 10 milioni se non risponde è ghosting, magie dell' alienazione tecnologica.

Scatole di cartone semantiche.

Sexbombing?

Cosa vuol dire?

Sexting?

Devo andare sul dizionario?

Ma che mi frega?

E continuano...

Il problema non è il prestito dall'inglese.

Il problema è l'impatto del web sulla psiche sopratutto spiace dirlo, degli stupidi o dei "nuovi intelligenti".

Sanno tutto. 

Google gli ha dato il beneficio di soddisfare la curiosità. 

Google ha rivestito la loro ignoranza di saccenza.

Non si rendono conto che la realtà è alquanto differente dalle "ricerchine".

Non percepiscono neanche il decadimento del motore di ricerca.

Perché non hanno una visione della realtà loro vera e propria.

La rete rischia di avere un impatto negativo sulla mente umana per vari motivi.

Classifica, incasella, inchioda a un termine, la pratica già di per sé negativa del pensiero classificativo trova su internet la sponda giusta per proliferare.

Credono di sapere...

Oh stupidi google formati...

Che bisogno c'è della realtà se tutto è sulla vostra "query" su google.

Non cerchi più la " verità là fuori " la cerchi su google.

O su chat gpt.

E i risultati quali sono?

Da " storico" di internet devo dire...

Un po' deludenti.

La prima internet quella dell' era presocial era intellettuale fino all' eccesso, puntigliosa nella punteggiatura, cesellata nell' italiano, dispotica nel presentarsi come autorità intellettuale e severissima con tutti.

Non ti bastava essere gnocca.

La Ferragni?

Uno tsunami di ignoranza di bella forma rivestito di like che ha distrutto la prima internet.

I like?

Ma la punteggiatura?

E lei? Lei chi è?

Lei non usa un  italiano corretto.

Impari la punteggiatura!

Erano gli anni migliori e più sperimentali di internet non c'erano byte a sufficienza per ospitare foto di te.

Poi l'ignominia e la barbarie social.

Facebook.

Instagram.

Tiktok.

Il video e l'immagine contro la parola.

E il Cristo logos viene crocefisso ad un meme idiota.

Webeti.

Ecco l'unico neologismo atto a definirli.

Webeti.

Sexbombing?

Ghosting?

Sexting?

Gaslighting?

Benching?

Resilienza?

Body shaming?

Sei un webete se usi queste parole.

Non significano:NULLA.

Significano solo che se parli così sei un idiota.


giovedì 14 dicembre 2023

La ''nuova'' strategia della tensione

 Commento la cronaca attuale.

Oramai si assiste a un isteria continua sul cosiddetto ''patriarcato'' in cui l'omicidio della Cecchettin da parte dell'ex convivente è diventato il leitmotiv per risaltare h24 una ''mattanza'' di donne ad opera del cosiddetto ''patriarcato''.

Sono stupito da questo ''ritorno alle origini''.

Dall'epoca Covid in cui ''nulla più sarà come prima'' si ritorna al caro vecchio giornalismo isterico in cui a spaventare non è più il ''virus'' ma i cari vecchi ''mostri di una volta''.

Dagli anni 90 in poi, complice il mutato clima economico e politico si va configurando una tipologia di giornalismo che estremizza, polarizza e crea ''emergenze percepite''.

Dimenticate dunque ambulanze e bombole di ossigeno, la sirena del funerale H24 per la Cecchettin è il chiodo nella bara dell'era Covid.

L'era covid è stata caratterizzata da questo fatto: un sistema mediatico che in precedenza creava stati di allarme nella popolazione e cercava di creare un senso di insicurezza permanente per fatti di cronaca singoli e non di certo nuovi , si ritrova per le mani un pericoloso virus che arriva dalla Cina.

Ovvio che scoppia il delirio.

Abituati a creare enfasi e tono di allarme sulla ''bomba d'acqua'' (alias temporale) di fronte  al virus prima, e alle bombe poi della guerra di Ucraina si crea uno stato di puro delirio nel sistema mediatico.

Ora si assiste al curioso fenomeno per cui a questa fase di ''allarme eccessivo ma giustificato'' si rientra nella fase di ''allarme eccessivo non giustificato creato ad arte''.

Per paradosso, sia la la pandemia, che la guerra in Ucraina hanno avuto le loro voci critiche.

Chi si opponeva ai lockdown, chi criticava la Nato.

Curioso che nei media tutto sommato manchi un popolo di ''no-fem'' da additare al pubblico ludibrio dopo i famigerati ''no-vax'' e i temibili ''pro-putin''.

Qualcuno prova a lanciare le pietre addosso agli inesistenti critici della teoria patriarcale e prova a dire:

''Guardate chi critica la tesi del patriarcato:''sono gli stessi che erano no-vax e pro-Putin''.

Una delle cose curiose è proprio questa: in questa fase di ''ritorno alla normalità '' in cui si torna a parlare di ''femminicidio'' e di ''bombe d'acqua'' al posto di virus e trincee, ma anche al posto di parlare delle bombe vere e proprie che comunque paradossalmente cadono ancora in Ucraina e Palestina, manca un Orsini anti-femminicidio.

Nei media occidentali si può finché criticare la Nato e le decisioni pandemiche, le tesi femministe evidentemente no.

Faccio notare alcune cose en passant, è già stato detto, è già visibile da tutti coloro che hanno un pò di sale in zucca che ''non c'è nessun reale incremento degli omicidi né di donne, né di uomini negli ultimi anni''.

Se noi guardiamo le cronache degli anni 70 e 80 notiamo come in Italia il tasso di omicidio vuoi per movente politico, vuoi per movente passionale, vuoi in generale era molto più alto.

La possibilità concreta di rimanere feriti o uccisi nell'Italia di allora era concreta.

L'Italia era in una fase di apice creativo, da zimbello delle nazioni sconfitte era diventata quinta potenza industriale e quello che faccio notare è che proprio mentre viveva il proprio apice creativo consumava stragi e violenze quotidiane ad un ritmo inconcepibile al giorno d'oggi.

In qualche modo creatività e violenza sono legate, nel momento in cui l'Italia era in pieno boom esplodevano le bombe piazzate da servizi segreti deviati ed esponenti di estrema destra, Moro veniva assassinato, la banda della Magliana imperversava, erano anni violenti e creativi.

Gli appassionati di cinema ricorderanno che in questa fase l'Italia ha prodotto quanto forse di più violento della storia del cinema da ''Cannibal Holocaust'' di Ruggero Deodati a tutta una serie di pellicole definite B-movie e scopiazzate dal peggiore Tarantino ''Buio Omega'', ''Nekromantik'' e quanto di più osceno e violento poteva essere immaginato.

Lo stesso Lucchino Visconti attuava una trama improponibile al giorno d'oggi nel suo capolavoro ''La caduta degli dei'' in cui il figlio gay e travestito rifiutato dalla sua famiglia borghese si vendica della madre stuprandola dopo aver aderito alla nascente ideologia nazista.

Tolleranza non prevista ne prevedibile al giorno d'oggi neanche per l'immaginazione in cui il massimo che possiamo ambire a pensare oggi sono le faccine ''insta'' della ferragni.

L'Italia è morta, la sua creatività anche, le stagioni della pistola facile e delle stragi di stato sono oramai dimenticate, con la sua creatività e vita è declinata anche la violenza.

A quanto pare se con un singolo episodio di cronaca nera si può ottenere lo stesso effetto che con una bomba, la stessa tensione, lo stesso stato di urgenza, gli stessi commenti da parte di presidente del consiglio ed istituzioni, perché piazzare una bomba con dispendio di energia e soldi?

È una nuova strategia della tensione in cui crei tensione e senso di urgente bisogno di leggi sicuritarie e liberticide senza neanche bisogno di piazzare bombe, ti basta di amplificare a dismisura un singolo fatto di cronaca nera presentandolo come “quotidianità “ e imbracciandolo come se fosse concepito da una organizzazione.

Basta la cronaca nera a creare emergenza, non esistono raptus ci dicono e dunque il maschio patriarca moderno è un novello spettro comunista con le debite differenze che le BR erano un organizzazione politica reale che uccideva e rivendicava ed esisteva, il ''patriarcato'' per contro che cos'è?

Una definizione fluida e plastica adattabile a qualsivoglia situazione e persona, non esistente né rivendicante, non omogenea, senza capi, senza mandanti, senza cattivi maestri.

Ma che può ugualmente spaventare e irreggimentare, tanto più che ne fai parte senza volerlo, senza aderire a nulla.

E così, il ''mostro Turetta'' ci viene sbattuto contro quasi a ricordarci che in fondo a qualcuno è andata peggio che peggio della solitudine, c'è la solitudine assassina del Turetta, e noi patriarchi immaginari del ventunesimo secolo rimpiangiamo insieme a Burioni, Crisanti e Bassetti i tempi del telecovid e del televirus, dei teletamponi,  ora che l'emergenza che non c'è ha definitivamente scalzato l'emergenza che c'era.

Come prima peggio di prima.


venerdì 17 novembre 2023

Epilogo

 La luce della luna fredda sui colli faceva da lanterna alle solitudini dei boschi.

La terra emanava un profumo repulsivo.

Si sentiva un sentore di morte, il lumino del santo al crocicchio nel crepuscolo sembrava fare da specchio buio al gelo della Luna.

Non c'erano seconde possibilità, le braccia avvolgenti dell'oscurità si protendevano ad abbracciare le viscere, gli alberi i boschi, gli animali che raspavano nella penombra a formare un sincizio con il lume del santino e ad aprire una porta nel mondo di Ade.

Non c'erano seconde possibilità.

La terra promanava una sensazione come se l'erba dovesse crescerti nelle viscere.

Da lontano un crepuscolo rosato ad occidente faceva l'occhiolino alla vita che moriva infiltrandosi nella terra.

Mi avvicinai al santino e vidi che era una strano santino, una strana statua che sembrava del tutto identica a me.

La luce cinerea della Luna la illuminava.

Vidi che aveva un dito che indicava ad un anfratto.

Provai ad avvicinarmi e vidi che era stretto, sentivo una attrazione.

Entrai nel pertugio illuminandolo con la luce del cellulare e vidi una meridiana sul soffitto.

Entrai in quell'oscurità e persi il senso del tempo, non capivo se procedeva avanti o indietro, c'era uno spazio nero in cui entrai, o meglio, lui entrò in me.

Sentii un senso strano, non di pace, ma neanche di inquietudine vidi la bellezza che sfioriva, vidi i petali dei fiori, solitari che si staccavano per entrare nella terra.

Sentii il mio stomaco avvolto in questa sensazione una umidità che mi permeava.

La luce della torcia del cellulare vagava nel pertugio che si apriva sempre di più.

Sentivo le membra sempre più rigide e a un certo punto cercai con forza di uscire, ma le mie membra diventavano sempre più rigide, mano a mano che mi avvicinavo all'uscita.

Via via che cercavo di uscire la terra mi entrava nelle viscere e mi sembrava di diventare di pietra fino a che mi fermai immobile con la mano con il dito che indicava l'apertura.

Mi resi conto che ero diventato la statua di pietra che avevo visto all'ingresso, guardai la luce fredda della Luna e sentì che l'abisso nero era diventato la mia pelle.

Guardai la caducità e compresi che i fiori si sentivano soli e io avrei dovuto fargli compagnia per l'eternità.

venerdì 27 ottobre 2023

La candela

 Il lenzuolo si stendeva ampio e da esso emergevano le mille forme.

Mille volti e lui li contemplava.

Nel lenzuolo il vento della notte si era infilato e faceva crescere le mille forme i mille volti.

Ogni volto emergeva e poi spariva.

Lui li vedeva mentre era seduto.

Mille volti, uno dopo l'altro, o insieme.

Il suo volto emerse e poi anche il corpo, sotto il lenzuolo la stava accarezzando e le mani da sotto il lenzuolo carezzavano lui.

Era lei che lo amava da sotto il lenzuolo, la sentiva, la carezzava e le sue mani carezzavano lui.

Ma lui prese il lenzuolo e tentò di scoprirla, per vedere che rimaneva più il nulla.

L'aria sotto il lenzuolo fuggì nel vento della notte.

La luce della Luna inseguiva le nubi ed egli le vide.

Il ricordo di lei si specchiava nella Luna.

Anche le altre mille forme erano sparite.

Ciònondimeno era in lui il ricordo.

O fuori di lui?

Già quando aveva lasciato il lenzuolo per terra le mani si protendevano ed altre forme si formavano.

E allora comprese, comprese che doveva dimenticare se voleva ritrovarla.

Mille forme e come avrebbe potuto riconoscerla senza il ricordo?

Un'immagine era il ricordo, o cosa, qualcosa che pulsava nel suo cuore, si diffondeva nelle sue arterie?

O la candela che brillava nella stanza e illuminava le forme? 

Il vento l'aveva portata via e già in un altra stanza si stava alzando la sua forma?

Ma per le colline e per i dirupi c'era solo il silenzioso benestare della notte.

I lupi danzavano e ululavano alla Luna.

Ricordavano anche loro.

E vide il sole in uno scrigno, e il sole si spense.

Sotto di lui le onde del mare si infrangevano nell'oscurità.

Afferrò il demone che giaceva nelle profondità del mare e non colse nulla.

Nella stanza sentì il passo morbido di una donna che soffiò sulla candela e la spense.

La dimenticò.

Solo allora nel buio la riconobbe.


venerdì 13 ottobre 2023

Una mela d'Ottobre

 Anche se l'amore è perduto

E si sa

Nulla sfugge al fato

E chi mi perdonerà?

Perdonami tu

Che leggi adesso

non sono capace di farlo

io stesso.

Di certo che mentre

La sera muore

Io mi chiedo che cos'è l'amore?

Potessi riavere il tempo passato

Io non l' avrei lasciata?

Tu ti senti

Un vero bambino

A non saper prendere 

Per buono il destino.

Tu non sai cogliere i fiori

D'estate

Perché ti penti

forse  che d'autunno 

Le mani son vuote?

E lasci il compito

A una poesia

Del tuo dolore

Mandarlo via.

Le stelle lontane

Son buone a far rime

Ma buono a nulla

E chi scavalca le cime

Poi torna indietro

Al passato.

Come se si potesse

cambiare il fato.

Come se il sole

 che la sera muore

Più non tornasse il mattino.

E tu ti senti un vero bambino

A non saper prendere

Per buono il destino.

Eppure questo è l'amore

Gli occhi son nuovi

Eppure son quelli

Sentirsi sul viso

I tuoi capelli,

Aver mangiato

d'autunno una mela

Ad ottobre.




martedì 10 ottobre 2023

La mano

 I filosofi greci arrivarono con Alessandro Magno nell'India.

Vigeva una tale filosofia allora chiamata Buddhismo, i gimnosofisti li chiamavano i greci, perché essi non indossavano vestiti e discutevano nudi della verità e della filosofia.

Amalek il Greco conobbe il Buddha.

''Salve o Ghandarva io vorrei invitarvi all'agorà a dibattere con noi, spero sia di vostro gradimento.''

''Salve o Amalek il tuo nome non è greco eppure tu discetti da filosofo greco?''

Amalek disse:

''O Gandharva ciò che uno è e ciò che uno crede di essere non sono la stessa cosa, vieni a discettare nell'agorà troverai molti uomini contenti di conoscere la tua dottrina, noi siamo greci perché non aderiamo a nulla di particolare, cerchiamo di eviscerare il mondo col potere del Logos''

Il Buddha si recò all'agorà.

Fu invitato a sedere.

Egli sedette alla greca per compiacere l'uditorio, la cosa fu apprezzata, era un uomo elastico evidentemente.

''Salve o Buddha, noi da sempre discettiamo di verità e di origine delle cose mostraci la tua''

Buddha rispose:

''Se tu credi che io conosca la verità ti fai trarre in inganno dalle tue stesse parole, verità è un concetto, nessun concetto è valido nel nirvana, il nirvana è aconcettuale''

''Però è accessibile, questo è il senso della mia filosofia, la verità è inaccessibile, perché è come cercare di entrare in uno specchio, ma se tu lucidi lo specchio, quello è il nirvana''

I filosofi greci tacquero per un momento.

Amalek continuò:

''Parla in greco con noi, ogni lingua è parte del processo di dialogo dunque spetta a te mostrare attraverso una corretta traduzione ciò che intendi esporre e non necessariamente a noi di imparare la tua lingua, la parleremo anche, ma nella agorà si discute in greco''

''Traduci Nirvana''

Il Buddha così tradusse:

''Credo si traduca con libertà se vogliamo rendere la cosa a voi greci''

''Amalek:''Perché dunque dicono che si traduca con estinzione o cessazione del soffio?''

Il Buddha:

''A voi il vento fa paura?''

''A me si'' disse Amalek il greco.

''Capisci il senso di questa paura?'' chiese Buddha.

Amalek:''mai capito il senso di qualsivoglia paura, tantomeno quella del vento''

Il Buddha:''il soffio, l'aria, il vento sono l'intima natura delle cose, neanche l'acqua liquida, ma l'aria mobile e ballerina, le foglie che vanno e vengono il senso di cogliere per un attimo un profumo e perderlo, c'è poesia nel vento ma non c'è stabilità.''

''Un profumo o un fiore dura il tempo che un soffio casuale si introduce nelle tue narici, è tutto casuale eppure nulla lo è, la polvere della morte inquieta l'uomo senza che egli sappia cosa l'inquieta''

Amalek:''io non ho paura della morte e non so neanche cos'è, in verità la mia gente non corre dietro né al vento, né alle paure e tantomeno concede parole al vento, sappiamo anche tacere, ma parliamo agli uomini e abbiamo piacere alla parola''

''Spiega il tuo concetto dunque.''

Il Buddha prese la parola:

''O Amalek io so che voi siete nobili e saggi e che le vostre parole e i vostri silenzi sono pregni della vostra dignità, ascolta le mie parole dunque e giudicale col tuo senso e non con il mio''

''O Amalek credo che l'archè di tutto sia il vuoto, e il mistero dello spazio infinito, credo che molti uomini si ancorino alla terra e che non lascino mai che i loro piedi non tocchino la solida pietra, alcuni più coraggiosi di altri non temono le acque e si spingono in mari lontani e colonizzano isole lontane, la tua gente è coraggiosa e nata fra le acque, ne sente il canto e non teme le nereidi e il loro tocco grazioso''

''O Amalek la vostra gente ha coraggio e naviga fra mari lontani fra ninfe e ciclopi, ma teme l'aria e la luce e affida a Icaro il compito di ammonire gli uomini sulla impossibilità di raggiungere il mondo dell'aria e della luce''

''O Amalek cogli il senso del mio viaggio, cogli l'isola che ho trovato nell'oceano, la ninfa dalla quale tu non vorrai più partire, o mio Ulisse coraggioso''

''Sono partito affrontando tutto ciò che mi spaventava affrontandolo e vivendolo, ho vissuto fame, morte, solitudine, disperazione angoscia e sangue''

''Sono annegato nelle profondità dell'essere fino a scoprire che nel fondo degli oceani, c'era il vento''

''Poi mi sono lasciato trasportare dal vento con paura e trepido amore, ho amato e sono morto come foglia avvizzita''

''Avevo paura, sentivo paura come avrei potuto non sentirla?''

''Provavo dolore, ricordi e campi morti d'inverno, mari gelidi e cuori freddi, ho rifiutato persino le mani che cercavano di cogliermi con pietà, pentendomi per poi scoprire che volevo afferrare il senso e non c'era nulla di cui pentirsi nel mio essere uomo, nel mio volere oltrepassare le colonne d'Ercole e anche nel mio avere paura e voler ritornare nella mia Itaca''

''Ho visto la bellezza di Nausicaa e la dolcezza della  vergogna delle ragazze di fronte a un uomo nudo e naufrago, anche la loro pietà rispettosa, il loro garbo, la dolcezza del loro sguardo rivolto verso il basso per non ferirmi eppure la loro mano tesa, le loro gote rosse, che pure sono la cosa più nobile e dolce che talvolta il mondo pare non avere del tutto dimenticato, io ho rifiutato''

''Nessun vestito indosso io naufrago, come vedi, sono un Ulisse più radicale, ho compreso che era il gioco del gatto col topo, il demone Mara dell'illusione quando sapeva di avermi in pugno rivestiva i suoi demoni di bellezza e garbo, egli sa cosa soffre ogni uomo e credimi più ti distacchi dopo ogni frecciata al tuo cuore e più lui arriva a carezzarti con falsa compassione per lasciarti ancora più nudo e naufrago nella prossima catastrofe, nel prossimo naufragio''

''E' un demone e non bisogna cercare di cogliere la raffinatezza del suo pensiero, egli ti incastra anche così''

''Egli si cura di creare ogni barca di modo che ti salvi dalle acque per farti morire  bruciato, gioca un gioco che è superiore al nostro stesso intelletto''

''O Gandharva parlami del porto e non del vento e delle acque, dimmi come tu o strano Ulisse straniero hai trovato la dimora'' disse Amalek il greco.

''Guarda questa mano'' disse il Buddha, ''l'ho sognata una notte e la guardavo, sognavo il mondo e la sua splendida luce, sognavo di essere tornato nella mia Itaca, di essere con mia moglie e di uccidere i miei nemici che la attentavano''

''Era successo era vero, era ''reale'' eppure sognandolo ho risognato le stesse cose, il cane Argo che è morto, Penelope fedele che mi ha riconosciuto, e tutto questo in virtù di una mano che ha saputo scoccare una freccia e colpire con precisione un bersaglio, io credevo.''

''Ho sognato un sogno strano che mi ha fatto riflettere, questa mano io non ne avevo coscienza nella realtà ed è per questo che è arrivata al bersaglio, nel sogno invece la sentivo e tremava e rischiava di non prenderlo''

''Quando ho tremato il mondo del sogno si è discostato dalla realtà, nella misura in cui non ne ero cosciente e non sapevo se fosse mia la mano, ha tremato''

''Ho capito che nella misura in cui pensavo fosse mia''.

''Il sogno era identico alla realtà, ma io ho sentito i miei pensieri e ho capito il nirvana, il potere è nella mano, e tutto il mondo essa può blandire amare odiare, uccidere e soggiogare, ma solo se la lasci fare.''

''Se tu dici alla tua mano colpisci il bersaglio lei non lo colpirà.''

''E se nemmeno una mano risponde a te, chi sei tu?''

Amalek il greco era stupito di questa rivisitazione dell'Odissea, non si immaginava che lo straniero conoscesse Omero e parlasse così bene la sua lingua.

Era veramente perplesso e si guardò la mano.

Tremava o non tremava?

Non tremava?

Tremava?

Era sua, non sua?

Prevalse la razionalità greca.

''Questa mano sembrerebbe mia o Ghandarva, di tutta onestà io non capisco come tu possa dire che non lo è, e se non lo è di chi dovrebbe essere, spetta a te dirlo e non a me perché io la riconosco come mia, e non ho dubbi dopo aver esaminato la questione.

''O Gandharva dimmi di chi è la mia mano se non è mia?''

Il Buddha prese l'arco e le frecce e le pose in mano ad Amalek.

''Vieni o Amalek, lascia che sia la tua mano a dirtelo''

''Tendi l'arco e la freccia e uccidimi''

''Non voglio'' disse Amalek, ''sono io che parlo che ti dico che non voglio''.

''Fallo se vuoi conoscere la verità''

Amalek era sempre più perplesso.

''Questi stranieri non conoscono il modo in cui si discute nell'Agorà'' ci fu disapprovazione da parte di tutti e un coro unanime di spregio verso questi modi barbari di affrontare la filosofia.

Amalek però ebbe un moto strano e impazzì, dopo che l'agorà rideva e si faceva burle del Buddha lui tese l'arco e lo colpì.

''Straniero se non sei pazzo dimostrami se questo è il nirvana io tutto sono disposto pur di conoscerla e nulla temo, neanche la barbarie del tuo modo di conoscerla.''

Il Buddha sorrise e si accasciò.

Amalek rimase deluso e umiliato di aver ascoltato un folle straniero, nulla gli faceva presagire di aver colto alcunché, eppure l'aveva ucciso.

Aveva obbligato a fare con la sua mano quel che la sua mano non voleva fare e aveva semplicemente dimostrato l'ovvio, la mano era la sua.

La folla era silenziosa, Amalek triste, il dialogo non l'aveva illuminato ma atterrito e anche l'ultima parte era orribile eppure l'aveva affrontata con la sua solida volontà.

Amalek era molto triste.

''Il mio amore per la verità mi ha portato a uccidere un uomo, eppure lo rifarei perché sono fatto così''

Non riusciva a dormire preso dal rimorso.

Pensava nel suo cervello che non doveva impazzire e farsi sedurre dalle parole di un barbaro invasato straniero, che aveva sbagliato, cercava di riportare indietro le lancette del tempo e di non colpire Buddha, di deporre l'arco e deriderlo insieme agli altri greci, cosa voleva insegnare un provinciale a un greco di volontà ferrea e di desiderio di conoscere il vero sopra ogni cosa?

Cosa voleva insegnare che già non fosse stato dibattuto mille volte in un agorà greca?

Non capiva.

Si diede all'ebbrezza del vino chiedendo a Dioniso di salvarlo della sua stessa empietà.

Amalek era solo nel suo letto quando si addormentò e sognò.

Era un legato romano di nome Ponzio Pilato in un villaggio palestinese e un pazzo con le stesse sembianze di quel Buddha già si palesava con quella odiosa ostinazione provinciale con cui questi barbari pretendono di insegnare a noi uomini della civiltà qual è la verità e il senso del mondo.

Gli chiese che cos'era la verità e lui non rispose.

Gli chiese se quella mano era la sua e urlò che era la sua e mai e poi mai avrebbe ripetuto quell'errore con un altro pazzo.

Mai si sarebbe sottoposto allo sgomento di un omicidio gratuito per scoprire il nulla e seguire le follie barbare di un rozzo straniero.

''Fatelo flagellare e liberatelo'' comandò risoluto.

''Questo idiota'' aggiunse.

Ma la folla era in tumulto e lui urlò ''cosa ha fatto di male costui?''

E la folla urlava ''crucifige!crucifige!''

Ossessi pazzi dannati!

Cosa toccava a un uomo razionale del mondo razionale in mezzo a zotici sanguinari!

Era incerto e riviveva il trauma dell'uccisione del pazzo indiano.

Non capiva.

Però era un incubo e fuori dal suo controllo.

Subiva più di tutti la colpa e l'irrazionalità del mondo.

Ma l'imperatore Tiberio non lo avrebbe perdonato del tumulto.

Ordinò di croceffigerlo contro la sua volontà.

Poi ebbe orrore della sua stessa mano e provò a mondarla del sangue con un gesto pubblico.

''Questo sangue non l'ha versato la mia mano, io me ne lavo le mani.''

Quel tale poi dissero che era risorto.

Si risvegliò stranamente felice, liberato di un peso.

Quella mano non la credeva più sua.

Andò a seppellire i resti dell'uomo che aveva ucciso nell'agorà.

E lo vide con suo sommo stupore vivo e vegeto nella posizione della meditazione.

''Hai sognato?'' gli chiese.

''Si'' rispose scosso e tremulo.

''Sei risorto?'' chiese Amalek.

''No, io mi sono accasciato ma tu non hai colpito.''

''Ho finto''

''Ricordi la tua mano Amalek?Quella mano era tua?''

Amalek era scosso e ora non tremava solo la sua mano, tremava tutto avvinto dal terrore.

Il Buddha lo prese gli mise in mano l'arco e lo aiutò a tenderlo da dietro.

''E' tua la mano Amalek?''

''Riesci a tenerla ferma?''

''Ora ricordi Amalek?Ricordi che hai tremato al solo pensiero di uccidermi, ricordi che la mano tremava, che la tua volontà non era tua, che la freccia NON ha centrato il bersaglio.''

''Amalek perdonami ho dovuto scuoterti per destarti, i tuoi ricordi sono ciò che è accaduto?''

Amalek tremava e piangeva ora ricordava che la mano si era mossa.

Si bloccò ritto nel rigore di chi è conscio che il ricordo è solo un pensiero, non la realtà.

''Tu eri preso dall'ossessione della  tua colpa, della tua volontà e della tua mano e del tuo assassinio da non rendere conto che hai tremato e non hai colpito il bersaglio.''

''Cosa sono i tuoi ricordi Amalek?''

''Il passato, il presente o il futuro?''

''O nessuno di questi?''

Amalek ebbe una vertigine.

Diamine la testa gli faceva pensare per passato una roba che era presente e viceversa.

Ebbe una vertigine.

Totale.

Un ebbrezza, un brivido lungo la schiena.

Il sudore lungo il corpo cadeva fradicio ma si quietò.

''Futuro, passato, presente'' disse.

''Non è il futuro, non è il passato, non è il presente, se potessi vederlo, vederlo realmente, non mi sarebbe apparso tale e mai mi apparirà tale''

''Hai sognato?'' gli chiese di nuovo.

Era in una sensazione distorta.

Non capiva più.

E allora capì.

A questo punto rispose:

''No, non ho sognato, non era un sogno''

''Stavo solo cercando di riordinare il tempo e gli oggetti e i soggetti del mondo senza riuscirci.''

''Bene'' rispose il Buddha.

Lui non comprese bene perché ma queste sue mani che non erano sue abbracciarono il Buddha.

''Hai sognato?'' gli chiese nuovamente.

''Ora non più'' rispose lui.

''Mi sono destato dal sogno, dall'incubo''

Il Buddha se ne tornò nella foresta sorridente Amalek impalato fermo.

Il vento che soffiava sotto le stelle solitarie, e il grande universo non faceva più paura.

Non era un flusso il vento ma una ricostruzione notturna, postuma, precedente, presente e futura.

Ogni foglia andava in una direzione diversa e il vento soffiava e lui sorrideva dei sogni dei mortali e della  paura che guidava le foglie tremule che avevano paura del vento.

Era la loro paura a guidarle.

Era la loro paura il vento e il destino.

Un incastro di sogni o cosa?

Ulisse non aveva centrato il bersaglio, solo amava molto sua moglie e aveva creduto di centrarlo.

Lei lo aveva amato e riconosciuto per quello.





sabato 7 ottobre 2023

La torre

 La regina stava rinchiusa nella torre.

''Oh come è possibile che il mio principe sia si' crudele?''

''E io l'ho amato, i miei passi sono stanchi e più non ho voglia di alzarmi dal letto, ogni pietra di questa torre lugubre e senza finestre mi ricorda il suo volto luminoso, io sono stata accanto a lui prima che la sua mano si distaccasse, prima di non poterla toccare più''.

''Oh che crudeltà, io sono stupida e senza valore, come una schiava egli mi tiene rinchiusa qui, ma senza poterlo vedere, nulla ha più senso, dico la verità senza di lui io più non voglio neanche tentare di uscire senza che i suoi passi guidino i miei''

''Ma il mondo è grande''.

I candelabri illuminavano il volto pallido della regina che esangue moriva ogni giorno.

Ella fuggiva gli specchi.

Sempre più magra si abbandonava al dolore, alla tenebra più profonda ella sussurrava il suo canto:

''Dolce crudeltà, topo che rodi la mia carne, perché i pensieri volano lontani fuori di qua, come prigione è la realtà, se solo potessi ristringere la tua mano, ma il pensiero, che mi è breve conforto subito svanisce e si tramuta nei muri plumbei che vedono i miei occhi, in cui sono rinchiusa, e già più non vedo te e già ritorna la tortura crudele, la memoria è prigione peggio di queste pietre.''

Lo strazio si ripeteva nel buio della torre.

Ella tentava di uscirne ma senza successo.

Un giorno prese un libro e tentò di distrarsi dal dolore.

Parlava di una grande battaglia.

Descriveva come il principe sarebbe dovuto partire per combattere le legioni di demoni ai confini del deserto di pietra nera.

''Chissà che non stia parlando di lui...''

Nel libro era narrato di come il principe aveva dovuto lasciare la sua dama per difendere i confini da una schiera di esseri malefici.

Odio, carestia, solitudine, egoismo, paura, ansia, dolore, morte l'ultimo, il più temibile si chiamavano i re senza testa del mondo infero.

Nel deserto li aveva incontrati ed essi lo avevano vinto e ucciso.

Passo dopo passo ella si trovava a salire una scala ebbra della sua stessa fatica, senza finestre il suo mondo, rinchiusa, prigioniera, orfana, cosa più temibile di tutte, abbandonata.

Saliva le scale senza luce se non quella dei suoi candelabri.

Sette candele, tre da una parte, tre dall'altra, una al centro.

La mente oramai assente, guardava la fiamma, prese il candelabro e illuminò la stanza.

''Il ricordo è vicario di luce, senza il sole, qualcosa me lo deve ricordare''

Chiuse gli occhi.

I suoi piedi scalzi sentivano il marmo freddo e crudele.

Fu consapevole dell'eternità e della morte.

Già tutto le pareva un sogno.

Disse: ''sia lode a Dio, agli arcangeli tutti'''.

E camminò lungo le scale, passo dopo passo il marmo gelido la faceva trasalire.

Ma il candelabro illuminò una porta di ferro.

Una porta che appariva solo se illuminata da quella fiamma.

Solo dalla fiamma verde al centro.

Aprì e si rese conto di essere sulla sommità della torre.

Vaste erano le colline verdi che ella poteva vedere con il suo sguardo sovrano, verde l'erba sotto i suoi piedi già la consolava del marmo freddo.

Posò il candelabro e mai gli parse che il sole fosse più luminoso.

Egli scandiva sillabe di gloria sulle nuvole, egli sorgeva sul lago cristallino a oriente.

''Come è bello e vasto il tuo regno o mio principe'' disse.

''Ma io qui sono prigioniera anche se sulla sommità della torre, il tuo regno è perso per sempre, la morte ha trionfato, sia lode a Dio comunque.''

Un volo di uccelli bianchi, da sinistra a destra le parve il cenno di compiacimento della Divinità alla sua lode.

Scavalcò la ringhiera d'oro e si buttò nel vuoto per uccidersi.

Già vedeva con orrore il terreno verde che le correva incontro, fragile il suo corpo, eppure grave verso la terra e la morte.

Guardò il sole e ne fu estasiata.

Che luce.

Le pietre della torre parevano fatte di solida materia cristallina, l'edera verde era così risplendente, quasi che fosse un santuario.

Vide gli uccelli che volavano e ne fu incantata, volle essere insieme a loro.

E fu solo allora che battè le sue ali.

E si rese conto di averne un paio bianche e di poter volare.

E già il terreno non le correva più incontro e già ella saliva insieme agli uccelli bianchi, sempre più in alto, padrona del suo respiro dell'aria, verso la luce.

Incontrò il principe sulla montagna di smeraldo dove gli uccelli la condussero ed egli  le confidò:

''Sapevo che potevi volare quassù, finalmente sei uscita dalla prigione del tuo cuore, dovevi sperimentare la pena dell'abbandono per sapere di essere un angelo e poter volare, i nemici non possono più farti del male, eri tu a doverli sconfiggere con un battito delle tue ali.''



giovedì 5 ottobre 2023

Buona notte

Fravarti valchiria sorella
alle acque tu comandi
la notte è tua ancella.
Lascia ch'io ti spandi
il mio sole, luce divina
su nuvole bianche 
carezze di brezza marina 
baci la tua fronte
le tue lacrime stanche.
Rugiada,
notte inoltrata,
oscurità sospesa
stelle  alte sul nostro tetto,
concedi la tua resa
oh mia fata
al sonno, nel tuo letto.
Non avere paura
del serpente sul tuo cuore,
egli già lo ha morso,
il suo zucchero
tramuta il  male
in bianco cristallino candore,
in neve brillante la calura.
Le tue dita alla luna
sono più che sufficienti,
i fuochi del giorno spenti
che la pace ti conceda
nelle tue più buie ore.
Vento inoltrato
su cipressi che ondeggiano lenti,
se tu ti abbandoni
il fato
brillerà diamante
occhi tuoi contenti.

lunedì 11 settembre 2023

Il primo fuoco

 Gli alberi crescono nella notte, sempre più alti.

Vaghiamo a piedi nudi orfani della luce.

Siamo arrivati qui da molto lontano.

Il vento è il nostro signore, ogni foglia si muove nel buio e noi siamo tremuli e abbandonati a dove vuole soffiare il destino.

Gli alberi crescono nella notte sempre più alti.

Anch'essi cercano con le loro mani di carpire la luce.

Che non c'è.

La nebbia si insinua a lambire i colli.

Le gocce di rugiada sono promesse del mattino, ma la luce tarda ad arrivare.

Ho dimenticato il tuo viso da quanto tempo l'oscurità si è insinuata in me.

La luce delle stelle può forse farmi intravedere il tuo corpo nudo?

Mi bastano le mani per sentirti.

Anche se hai paura ti intimo di tacere con una mano.

E' una scintilla di luce che è scesa in me.

Non è tempo di amori, la fame e la paura ci incalzano, i rumori da quegli alberi lontani si fanno più vicini.

Se hai paura taci e non gridare, e se il tuo cuore batte troppo ringrazialo e fai pulsare le tue vene mentre stringo la tua mano.

Ora lasciami per un attimo, rannicchiati.

Una stella si è insinuata in me.

Porto le mani al cielo e prendo la pietra.

Credo di sentire cosa fare.

Il rumore si fa più vicino.

Batto con la pietra il sigillo del dio della foresta.

Le scintille sopra gli sterpi, ci ho già provato.

Cadono come le stelle del cielo mentre prego gli alberi di portarle qui giù.

Oh com'è bella la paura, ha sempre il potere di farmi dimenticare tutto e portare la mia mente dove sono io.

Batto con più forza sugli sterpi.

Sento il tuo respiro sempre più forte.

Non mi toccare, devo essere un ponte con il cielo, lascia che io non senta per un attimo le tue braccia avide di protezione.

Alzo di nuovo le mani al cielo.

Disegno con una mano il sigillo di Oxum sulla nuda terra.

Ora è sacra forse accadrà.

Il buio si illumina, le scintille stelle rosse cadono dalle mie mani.

E finalmente posso riguardare i tuoi occhi.

La luce si è accesa, il fuoco brucia gli sterpi.

Danza e aderisce agli steli che si afflosciano e si muovono come serpenti.

Ora che lo guardi sai chi sei, ne sei ipnotizzata.

Il battito del tuo cuore è di nuovo calmo, i tuoi occhi distanti, distanti a guardare la luce delle stelle sulla terra.

Ora sai chi sei.

Io non più, perché il tuo volto è diverso.

Come sei bella.

Sai questo fuoco che ho acceso per la prima volta nella notte dell'umanità ha cacciato gli occhi ciechi della bestia che ci dava la caccia.

Ma perché ti ricordavo diversa?

Cosa avevano visto i miei occhi e cosa vedono ora?

Perché vedevano il tuo volto in quella maniera brutta un tempo?

Erano forse gli occhi paurosi di una bestia spaventata?

Mi guardi e il tuo sguardo è sempre quello di un tempo.

Avida carpisci mille particolari, il fuoco ti piace, io non più.

Triste getto altri sterpi ad alzarlo.

Ora sai come fare ad accenderlo io non ti servo più.

Il tuo cuore è calmo e le tue mani più non mi cercano.

Avida di calore vai verso il fuoco ipnotizzata.

E' nata l'umanità e già si è compiuto il primo vagito del dolore.

La tenebra era profonda e ora la luce non è nata dall'orizzonte col sole ma guarda dal basso gli alberi.

Oxum ti ha rapita.

Le tue mani più non mi cercano.

E io ci soffro.

Non le tendi nemmeno per fermarmi quando io orfano della tenebra ti lascio per vagare di nuovo nell'oscurità.

Ho di nuovo bisogno della paura per placare il mio dolore.

Cammino mentre la luce rosseggiante del fuoco si fa più tenue dietro di me.

Torno nel buio e mi rannicchio sulla nuda terra che più da vicino mi ricorda il tuo abbraccio.

La via Lattea non ha il più benché minimo senso.

E se portassi almeno il tuo ricordo con me quando tornerò alla mia stella?


domenica 3 settembre 2023

''Mia vita molto dura''

Quel giorno ero arrivato al paese di corsa come al solito e mi ero fermato al bar mentre guardavo il pomeriggio cadere tranquillo fra le case in pietra.
I cipressi erano alti e sembravano finti.
Mentre l'oro si stendeva fra le colline brulle nel tardo meriggio giocavo a chiedermi cosa ci fosse oltre quelle colline brulle.
Le bandierine appese alle corde sospese fra le case ondeggiavano al vento tra le case in stile tibetano involontario.
Avrebbero potuto contenere delle preghiere buddhiste.
In realtà erano lì da una festa di qualche mese fa e nessuno le aveva tolte.
Arrivando di corsa avevo avuto sensazioni diverse.
Per certi versi aveva qualcosa del deserto.
Da lontano le colline  verso Volterra avevano un colore davvero giallognolo brullo.
L'Italia è un incrocio fra Europa e Medio Oriente.
La Toscana è una terra di apparenti gaudenti che secondo me hanno dimenticato i primi eremiti che avevano vissuto una vita di vento e silenzio.
Immaginavo cosa dovevano avere provato i primi colonizzatori di questo posto.
Mi chiedevo cosa diamine ci facessi lì.
Se lo saranno chiesti pure loro.
Mentre ero assorto in questa contemplazione il croato passa con un land rover scassato e mi dice ''dottore, mia vita dura, vieni stasera?''
''Oddio diamine me ne ero dimenticato''.
''Mia vita dura'' replica lui.
''Dai corro a casa e vengo dopo che mi sono fatto una doccia.''
''Mia vita molto dura'' ripete.
''Ma come fa uno con mille euro al mese a campare!'' si lamenta.
''Loro aristocratici, mia vita dura!''
''Ok adesso fammi andare vengo stasera''.
Corro di ritorno e mi fermo a mangiare dei fichi maturi e dolci, entro incuriosito in un cimitero e mi ritraggo subito.
Sebbene gli alberi e i cipressi stiano alti a sognare nel cielo l'idea di finire lì sotto mi angoscia non poco.
''Non qui, non adesso''.
Il campanile mi ricorda scandendo le ore che devo muovermi.
Arrivo a casa, bevo quasi disidratato, mi faccio una doccia.
Ho quasi l'impressione di fargli un piacere, non voglio essere scortese, ma me ne starei a casa, sono stanco di uscite fetecchie.
Arrivo al castelletto, la medievale e sontuosa abitazione del tempo che fu, ci ero passato diverse volte e non ci ero mai entrato.
''Sarà vero che qui c'erano i cavalieri templari?''
''Può essere reale quel passato di nobili principi sebbene assurdi per cui la gente moriva?''
''Vedi che comunque qui c'era una certa tensione spirituale,  lo percepivo.''
La villa non sembra avere entrate aperte ho già l'impressione di essere venuto per niente.
A un certo punto passo vicino a una porta stretta e lui mi chiama dall'interno.
Stanno preparando da mangiare e mi fa entrare.
Salgo delle scale in legno, vedo la Luna che accarezza l'edera verde sui muri fra le due torrette del balcone che le collega.
La magione templare è antica e nobiliare, si vedono decine di quadri alle pareti, i soffitti alti in legno, le lampade che danno una luce soffusa.
Tutti nobili, tutti morti, i soprammobili in alabastro di Volterra.
Tutto quanto ha le dimensioni di un sogno.
Mi siedo in un seggio in legno in quella che sembra una sorta di antica cappella con la gente seduta sui banchi.
I cantanti e le cantanti si alternano con il  maestro pianista che li accompagna.
La gente guarda in silenzio come a una celebrazione liturgica.
La porta in vetro smerigliato verde con intarsiata con intelaiatura a quadri di metallo sottile lascia intravedere un verde giardino.
Lo immagino.
Via via che si fa buio la luce smette di entrare da essa e diventa quella morbida e accogliente delle lampade e delle candele.
I soffitti alti, i quadri, l'enorme camino spento.
Intonano canti lirici in tedesco.
Intuisco una parola e l'altra e penso che in generale la musica e la poesia sono un caleidoscopio con cui con quattro vetri tiri fuori delle splendide illusioni.
Difatti le parole in tedesco grossomodo sono quelle lì,''sonne'' sole, ''abendlicht'' luce del vespro, ''liebe'', amore.
Diamine, sti poeti e musicisti giocano un gioco facile, rispetto alla complessità della vita, loro ti parlano di stelle e tramonti, del sole che splende senza dirti che splende senza un costrutto, che la sua luce è quanto di più divino e al tempo stesso profano esista.
Un dio muto che si contenta della sua gloria, narciso e pavido di vedere cosa la notte abbia in serbo.
Ma al mondo esistono ancora i nobili?
Eccoli qua.
I nobili cercano di  prendere esempio da lui, ma sono più simili alle candele che sono accese li sopra quel mobile a baldacchino.
La contessa maestra di canto si gloria del suo coro, ma le candele illuminano poco i ragni nell'ombra sopra, e i quadri sospesi e onirici di uomini dalla fronte distesa e i capelli bianchi.
La gente applaude senza capire un tubo, effettivamente sono bravi, le loro ugole si spingono in ogni direzione.
La cantante magra è timida di una bellezza che solo le ragazze timide sanno ostentare.
Magra e alta dai capelli neri e ricci.
Tutte curate.
La cantante decisamente più in carne occupa lo spazio di tre di loro, sembra uscita da quei cartoni animati degli anni 20 un pò lisergici, con i topolini strambi e la cantante che con la sua voce fa saltare l'empire state building mentre si gonfia a dismisura.
Un tizio scalzo che intuisco essere straniero riprende la scena.
Nessuno per fortuna si osa a riprendere la scena col telefonino, anche i cafoni in mezzo ai nobili capiscono perfettamente ciò che è volgare.
Io mi adeguo e applaudo, chiudo gli occhi e guidato dalla musica mi rilasso.
Mi addormento.
Vengo risvegliato dagli applausi.
Ah diamine siamo qui.
Ci portano al rinfresco e mi sazio senza troppe remore.
La contessa prorompe in un:
''Un grazie al nostro maestro di pianoforte Pacchiarotti.''
Io dico diamine non ci credo dopo trenta nomi austroungarici mi arriva così sbilenco un Pacchiarotti a tradimento.
Trattengo il mezzo sorriso lui si inchina placido e tranquillo.
Anche i nobili nei quadri sopra sembrano deriderlo un pò con la coda della bocca.
''Ma che mondo, ma diamine cambia una lettera del cognome se devi fare carriera, non sembra vero''.
Ma si parliamo col maestro Pacchiarotti.
Il maestro è bonario e goloso si abbuffa delle vivande sopra la tavola.
La pancetta a tradire un temperamento piacevole e gentile di quelle persone che sono buone perché gli piace semplicemente il buono della vita.
Io gli spiego dove siamo perché lui mi dice:
''Siamo stati un pò segregati qui a provare tutta la settimana, una volta ci hanno portati in macchina al paese ma solo per un quarto d'ora.''
Ma che buona la contessa gli ha dato il quarto d'ora d'aria al Pacchiarotti disorientato di fronte ai colli toscani.
''Allora con un mano indico da una parte, qui il nord Pistoia, Lucca, qui sud est Volterra, Siena, qui ovest il mare Livorno.''
L'altra cantante sembra preoccupata che io gli porti via il Pacchiarotti, riorientandolo di modo che fugga.
E a un certo punto datemelo anche un pò a me il Pacchiarotti,  anch'io ho il mio diritto a un pezzo del cuore agrodolce del Pacchiarotti.
Gelosa lo rimprovera:
''Maestro vedo che hai già stretto amicizia''.
''Maestro, domani devi essere a cantare a un matrimonio.''
Ahi lui si mette la mano sulla pancia e tace.
''Ma io mi trovo bene qui.''
Prova a protestare.
''Troppo bene qui, facciamo sempre fatica a portarlo via'' mi dice sorridente, e senza fatica lo porta via con lo sguardo basso.
''Il maestro è molto bravo''
Soggiunge, mentre mi guarda come a dire ''non approfittare troppo della sua bravura è solo per noi.''
Ma la contessa che dice?
E' precisa uguale alla contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, stessi vestiti solo più minuta e forse cortese.
Lui le chiede un pò di coca cola.
Inguaribile Pacchiarotti niente champagne e solo coca cola a noi  piace quel che ci piace.
Tartine dolci insieme al salato, sancisce lui, ''a me piace così.''
Lei sorride beata di cotanta bonaria richiesta e maternamente invita la servitù ad accontentarlo.
Il croato gli porge la coca cola nel bicchiere.
''Maestro?!'' lo chiama una.
''Maestro!'' un altra.
''Maestro?''
''Maestro?''
Da tutte le parti lo vogliono.
Lui alza il bicchiere della coca cola fa cin cin e col bicchiere alzato:
''Maestro di 'sto cazzo''.
E se ne va dalla stanza portandosi via la bottiglia della coca cola.
''Ineffabile Pacchiarotti''.
Dico io.
''Un uomo come pochi altri''.
La gente applaude senza motivo a Pacchiarotti che non c'è più.
''Una grande uscita di scena!''.
Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace.
La cantante magra che mi dicono essere svizzera mi piace.
Ma io non faccio a tempo a presentarmi che il croato ci prende e con una certa fermezza ci allontana dai nobili.
''Diamine sempre così'' penso.
''I nobili ti fanno entrare guardare e ti sbattono alla porta, devi solo applaudire, non si fa, o meglio si che si fa, a noi si fa, si deve fare, forse non sono buono come il Pacchiarotti, sono cattivo e me lo merito.''
Alla porta al croato gli chiedo una sigaretta di consolazione.
Lui mi dice di giramela io non sono capace e me la gira lui.
La vita è come una sigaretta che non so girare, quando imparerò a girarla forse me la potrò fumare.
Lui me la gira e la fumo.
I cipressi sognano sotto il cielo blu, e se Van Gogh vede cose strane, pace all'anima sua, io qui ho l'impressione solo che sia tutto un sogno.
A volte bello, a volte brutto.
Questa trovata del cognome Pacchiarotti è un segnale del destino che mi dice:''non te la prendere è un sogno bizzarro.''
Fuori il croato mi dice:
''Ora capisci dottore perché mia vita è molto dura.''
Vago per la strada guardando il cielo blu della notte, le cicale che intonano il loro coro.
Sento una voce che pronuncia il mio nome dal cimitero dal cimitero.
''Oddio ho paura i morti mi stanno chiamando.''
''Forse è veramente la mia ora.''
La voce continua a chiamarmi.
Entro aprendo il cancello.
Le tombe bianche si allargano per molto spazio con i lumini elettrici sotto a fare da contrappuntò alle stelle sopra.
''Cosa vogliono dirmi i morti?Saranno fantasmi di templari eremiti?''
Mi avvicino.
Una figura nera nell'ombra è riversa a terra.
''Devo ascoltarli, sapranno consigliarmi.''
Mi avvicino.
''Parla dunque, chiunque tu sia.''
''Vuoi della coca cola?''
''Cosa?''
''Vuoi della coca cola?
''Eh?''
Ma non mi sembra una frase di grande saggezza.
Mi avvicino.
''Oh diamine è il Pacchiarotti''
''Vuoi della coca cola?''
''Ma vai a fare in culo te e la coca cola mi hai fatto prendere un colpo, pensavo fossi un fantasma, sto posto da i brividi di notte.''
''Mi porti via?''
''Dai vieni fantasma  Pacchiarotti, ho capito che sei sotto sequestro fuggiamo dalla magione templare.''
Io e il Pacchiarotti ci allontaniamo sorseggiando coca cola in macchina fra le stradine tortuose dei colli.
 

lunedì 28 agosto 2023

La spiaggia

 Ahriman era nel suo fuoco a bruciare.

Stava sepolto nel suo tumulo di cenere al fondo dell'inferno.

Il suo castello di pietre all'incontrario era costruito da molto tempo e da molto tempo egli non usciva.

Dicono che i demoni siano cattivi, ma non è detto che sia così.

Non potevano forse lasciarlo solo nel tumulo della sua rovina?

Egli dimenticava il tempo in cui aveva sfidato l'alto e aveva perso.

A dirla tutta gli sembrava una bugia.

Nel castello di pietre all'incontrario succedevano molte cose strane.

Era sempre notte e tutte le finestre erano accese.

Mentre saliva le scale, messere dalle tre teste oblunghe vide la cameriera dal bel volto che si incipriava alla luce delle lampade, al suo specchio, si metteva il suo rossetto alla finestra.

Era una cameriera strana, sempre ferma a quella finestra che tu vedevi mentre salivi le scale.

Messere dalle tre teste oblunghe era venuto a trovare Arhiman l'infimo il maledetto dal fondo del suo sepolcro.

''Signore della tempesta e del vento caldo del deserto è ora che ti desti'' disse di fronte ai mattoni rossi della porta barocca murata nel suo sepolcro.

Non rispose.

''Signore dei cimiteri, i morti hanno troppa pace, vieni a tormentare i vivi...''

Provò a stuzzicarlo.

Non rispose.

''E' morto?''

Si chiese messere dalle tre teste oblunghe.

''Orbene il filosofo Nietzsche al piano quarto è ben distratto, ha notato la morte di Dio ma si è scordato della morte del demonio.''

Infilò le mani in tasca e pose un crocefisso rovesciato ai piedi del tumulo, sia mai che accoglie i doni....

''Vai a fare in culo.''

Furono le parole semplici che emersero dalla sua gola limpida.

Parole chiare come di un uomo normale, non di un demone.

''Per quale ragione mio signore?'' chiese il messere.

''Se ti mando al diavolo ti dovrei tenere con me.''

Fu la laconica risposta.

''Mio signore, lei mi pare molto in difficoltà, volevamo solo esprimerle la nostra vicinanza.''

''Messere senza volto dalle tre teste oblunghe, non c'è una motivazione a ciò che dico.''

Si inginocchiò compunto e riprese il crocefisso rovesciato con una certa tristezza.

Si girò e salì le scale.

La cameriera incipriata brillava delle luci delle lampade sempre alla finestra che si metteva il rossetto allo specchio.

Chissà cosa c'era dall'altra parte del palazzo, messere senza volto la guardò con una sola testa, poi si ritirò in un cimitero al di sopra, l'aria dell'inferno era snervante.

Sotto un cipresso guardava la luna triste.

Mentre guardava la luna una mano si posò sulla sua spalla.

Pensò subito alla cameriera incipriata.

Invece era Lilith, oh che noia.

Chinò tutte e tre le teste, in preda allo sconforto.

''Volevo solo confortarti e guardare la luce della luna con te''.

Disse.

Appena lo toccò i suoi tre membri si rizzarono come sempre.

''Lilith ti odio''.

Lei sorrise a quella parola.

Ebbe una risata.

''E' per questo che io ti amo.''

Lui rimase fermo in silenzio guardando la luna.

''Lilith aiutami con Arhiman, non esce più dal suo tumulo di cenere, prova tu, ma ho poca fiducia.''

Lei provò a graffiarlo con le sue unghie  ma lui si scostò.

Non era giornata.

Camminò coi suoi tacchi a spillo lungo tutte le scale, vide la cameriera incipriata che si metteva il rossetto mentre batteva i tacchi come un orologio sulle scale lei si girò a guardarla e le luci si spensero.

Era una sovrana gelosa.

Nella tenebra più totale si presentò ad Arhiman.

''Cosa posso darle mio Signore, ho un cuore gelido a sufficienza per lei?''

Arhiman non rispose.

Depose un sigaro sulla soglia murata.

''Di solito i crocefissi rovesciati non gli garbano i sigari sì''.

Arhiman diede tre colpi.

La cameriera incipriata si fece presente e prese il sigaro.

''Cosa fai?''

''Glielo vado a portare''.

Lilith si tolse una scarpa e con il tacco a spillo le perforò la fronte.

Messere dalle tre teste dietro le scale arrivò sommesso.

''Ci sei riuscita?''

Arhiman sfondò il muro di mattoni infastidito, prese il sigaro e si ritirò nel suo silenzio.

''A quanto pare no''.

Mentre salivano le scale buie Lilith si tolse anche l'altra scarpa.

Messere dalle tre teste oblunghe si girò e si diedero ad un amplesso.

''Riesci sempre ad eccitarmi comunque''.

Mentre i due i due si davano all'amore ''persona senza volto'' li scavalcò senza quasi avvedersene.

Arrivò alla soglia.

''Arhiman''

''Ti voglio portare alla spiaggia là dove la luce della luna è azzurrognola e gioca nella notte con i pesci, forse questo ti potrà essere di sollievo''

Arhiman uscì subito intontito.

Era un bambino di cinque anni.

''Mi porti?''

''Mi proteggi?''

Lei non rispose e lo prese per mano.

Arhiman vide i due che facevano l'amore.

''Cosa fanno?'' chiese.

''Coreografia'' fu la risposta.

''Tutto questo inferno che vedi è coreografia.''

''Ora ti mostro il male reale''.

''Vieni''.

Uscirono dal castello.

''E' giorno'' gridò spaventato Arhiman.

''Avevi detto che mi proteggevi.''

Lei inflessibile lo portò alla spiaggia.

''Non è ne giorno ne notte''.

Lui vide la spiaggia.

''Vuoi bagnarti?''

''Perché quelle onde non arrivano a riva?'' chiese.

Lei lo sospinse nelle acque tetragona ad ogni risposta.

L'acqua era liquida all'inizio poi diventava via via più gelatinosa.

Arhiman fu preso da inquietudine, da forte inquietudine.

Le onde via via si irrigidivano e cristallizzavano, la cosa lo inquietava molto più dell'inferno.

''Perché queste onde non arrivano a riva?''

Chiese disperato.

''Che ne è delle leggi della fisica?''

''E' qui che le anime soffrono per sempre?''

Lei lo conduceva.

Entrò nell'acqua in quel punto e vide la spiaggia da quel punto.

Non poteva nemmeno annegare.

''Perché queste onde non arrivano a riva?''

Non ebbe risposta.

Lei era scomparsa.

Sentì le anime bloccate.

Ne fu turbato, non potè nemmeno capire.

''Mi ha mentito qui non ci sono ne la luna ne i pesci qui c'è il nucleo del male nel mondo''.

Provò a tornare a riva e non ci riuscì.

domenica 27 agosto 2023

Stella polare

 La palla rossa del sole illuminava il mondo.

Eserciti marciavano alla testa di soldati.

Fresche le loro carni, gelidi i proiettili che li divoravano.

Una specie aveva alzato la testa dalle profondità del cosmo e ora la guerra giungeva a schiacciare la sua testa bassa in una trincea.

Strisciavano nel fango ebbri di non sa quale ebbrezza di distruzione e di autodistruzione, cercavano la grandezza in un mondo in cui erano confinati a essere piccoli, o se erano piccoli.

Un giorno si accese una stella, una stella diversa dalle altre.

Una stella diversa?

No gli astronomi cinesi l'avevano individuata era la stella polare dell'orsa maggiore.

Dicono che dalle stelle non arriverà nulla, eppure tutto arriva da lì.

Ebbe una oscillazione, e da quella oscillazione invisibile a tutti uno sconvolgimento prese il mondo.

La guerra imperversava e gli eserciti marciavano perché il sole rosso era acceso e il suo campo li portava a combattere.

Dai deserti passavano silenziosi cacciabombardieri, nell'alto dell'atmosfera uno sthealth prendeva rifornimento da un aereo cisterna che lo aveva agganciato.

Di colpo un elettricità silenziosa avvolse i corpi degli uomini che si ritenevano acciaio, quando i loro cuori erano teneri germogli bisognosi della pioggia delle stelle per germogliare e ricordare.

Di colpo tutti furono presi da un fremito di un ricordo.

Da sempre l'umanità s'era evoluta incapace di cogliere il moto profondo al di fuori del cuore della terra per giungere a erigere monoliti di metallo e città.

Di colpo l'umanità ricominciò a ricordare il principio, il principio.

Tutti ricordarono la stella del principio, la stella del principio.

Sognarono le vecchie albe e i vecchi tramonti, il suo cielo violetto e il sole che splendeva lontano dai loro deserti.

Il profeta gli aveva promesso il paradiso su quella stella e loro avevano costruito vascelli per attraversare le nere distese.

Erano piovuti su quel pianeta e furono colti da sgomento, il paradiso promesso era in realtà un inferno.

Vi erano giunti fra fiumi di lava e foreste incolti, i dolci frutti degli alberi del loro pianeta erano così diversi da quelli di questo.

Se ne erano dimenticati oramai da molto tempo, e lo ricordavano attraverso strani miti.

Di colpo tutti ricordarono la dolcezza dei frutti degli alberi del pianeta da cui venivano.

Era solo una nostalgia di un gusto, un sapore di dolcezza così concreto e forte, l'unico ricordo che essi sentivano di avere.

Ma quella dolcezza gli conquistò il cuore.

Lo sthealt volava sui deserti del Sinai e dell'Egitto nella culla dell'umanità.

Di colpo il pilota si sentì guidato da una forza più grande di lui mentre il sole sorgeva rosso dalle sabbie dell'Arabia, il pilota sentiva di colpo di essersi riorientato, aveva percepito il nord cosmico della stella polare e adesso percepiva l'oriente e i suoi paradisi lontani di frutti dai gusti inesprimibili, di dei dalla testa allungata, di strani nomi pensieri e parole, e mentre egli sentiva l'ebbrezza del volo radente fra le dune che fuggivano a velocità folle sotto lo scafo del suo velivolo la nostalgia saliva con il sole che emergeva dalle sabbie.

E tanto più saliva tanto più il suo Signore prendeva il controllo della sua mano sulla cloche che lo spingeva ad atterrare.

Passò radente alle piramidi ed ebbe solo la sensazione che quello fosse il giro della boa.

La sua mano virò di nuovo verso oriente verso il sole che nasceva dalla terra d'Arabia, vane e inutili le piramidi erano solo monoliti eretti nella prima hybris della civiltà, essi credevano di fare ponti con il cielo ma essi avevano dimenticato.

La sua mano guidata dal suo Signore guidava verso oriente.

Egli traversò il Mar Rosso come Mosè e il suo popolo, egli colse il senso di quel passo scritto tanto tempo fa sotto le piramidi.

I deserti dell'Arabia si affacciarono di nuovo nella loro disarmante e desolante bellezza di fronte ai suoi occhi accecati dalla luce.

Rallentò, rallentò, rallentò la sua corsa folle mentre il suo scafo volava alto ai confini del cielo dove l'azzurro dell'atmosfera ai confini del nero spazio  fanno apparire ancora più brillante il sole e puoi vedere le stelle di giorno.

Il fulgore del firmamento e quello del sole accecavano i suoi occhi, ma la sottile invisibile vibrazione dalla stella polare era dolce, dolce, dolce più delle arsure del mondo, del suo fuoco, del suo metallo delle membra corrucciate nell'ombra del dolore, della malattia, dell'oblio, della rabbia folle che voleva distruggere quel mondo.

Più dolce, più dolce di ogni cosa mai sperimentata prima.

''Normale, normale, normale, pienamente normale'' si disse, ''che noi uomini lo odiamo e ci odiamo e lo vogliamo distruggere.''

Atterrò nell'Oman senza un motivo preciso, ivi il deserto era semplicemente una distesa di pietre piatta che consentiva al suo velivolo di prendere contatto con la terra, gradatamente atterrò non con una certa difficoltà rovinando il carrello e mettendosi a sfrigolare di scintille rosse fra le pietre che sfasciavano gradualmente la base dell'aereo rendendolo inservibile.

Era ipnotizzato dalla nostalgia e non si curava più di nulla mentre il suo aereo sobbalzava in un elettroshock di vibrazioni violente per il contatto con il terreno accidentato, il suo cervello era ebbro della dolcezza della stella polare che lo guidava nel dolore e nel terrore mentre sobbalzava esausto come abbandonato a una forza esterna che lo faceva tremare violentemente, mentre rallentava fra il fuoco delle scintille dello scafo che si distruggeva nella valle desolata.

A un certo punto si fermò, fumante e incandescente fra i deserti accecanti e caldi dell'Arabia.

Scosso.

Nel senso fisico e mentale del termine.

Non è semplicissimo atterrare non su una pista ma su quel terreno, ma ci era riuscito.

''E' sempre così il vero ritorno, il ritorno all'origine, alla terra vera, non è uno scherzo, i cieli azzurri sono più comodi'' pensò.

E si stagliavano sopra di lui come un enigma azzurro, come un enigma pieno di dolore e di dolcissima ma lancinante nostalgia.

Questa per lui era come una sorta di nascita.

Era vivo infatti, mai così vivo.

Uscì dal velivolo.

Il sole oramai stava declinando verso occidente, immalinconendolo ulteriormente.

''Questi raggi rossi tingono di rosso un mondo di fuoco e sangue, la disarmante bellezza di un curioso inferno, sospeso fra i sospiri incomprensibili delle stelle, fra i gemiti di nuvole che disegnano alfabeti ignoti'' pensò.

Lo guardò come se gli fosse del tutto estraneo, perché nei fatti lo era.

Ne era solo più consapevole ora.

Si trovò solo, solo, solo come era sempre stato.

Solo come una pietra stupida che nella luce del tramonto del deserto è capace solo di gettare ombre e dubbi sul suo passato e sul suo destino.

Che crudeltà.

Solo in mezzo ai cieli, solo in mezzo agli umani, solo in mezzo agli abbracci, solo, del tutto solo, solo che ora la distesa di pietre aguzze sogghignava come i denti di una bocca che lo divorava di quella solitudine.

Era un uomo.

Capita così agli uomini.

Capita così da sempre.

O meglio, non da sempre.

Da quando sono venuti qui.

Venne la sera, e la mezzaluna si innalzò sul deserto.

Camminava a passi incerti nella notte calda, chiedendosi che cosa ne aveva fatto di lui quella pazzia che lo aveva spinto ad atterrare lì.

Che triste il crepuscolo e la solitudine, tu uomo con il tuo ingegno non puoi arrampicarti sul firmamento per tornare da dove sei venuto, puoi al massimo distruggere e lanciare il fuoco, e godere sogghignando del fuoco che brucia fra le città tormentate cui hai consegnato le tue bombe, come braci, come ceneri rosse di un inferno che brucia solitario e stupido.

Sogghigna creatura disperata, sogghigna mentre cerchi riparo nella morte.

Non tornerai comunque alla tua stella.

Non sarà il seno di tua Madre.

Eppure lui sentiva la Presenza.

La Presenza del suo Signore.

La Luna lo guidava per mano.

Mentre la sete lo stritolava, lui ebbe paura, si sentì fragile quale fragile uomo egli era e non comprese neanche bene la necessità di mostrare una forza che non gli apparteneva.

Cadde in ginocchio in preda ai fumi del deliquio dopo aver camminato per ore alla luce della Luna.

Si sentiva impaurito, molto impaurito.

Si sentiva quello che era.

Un bambino solo e disperato che piangeva perso perché non riusciva a ritornare a casa.

Ma la Luna lo prese per mano e lui in mezzo alla sabbia vide l'acqua e l'albero misterioso.

Il genesi?

Una volata fredda dal cielo, e la stella polare lì ad indicargli l'albero.

La fine è un nuovo principio.

Ebbe di nuovo paura.

Era forse un allucinazione, un sogno causata dalla sete e dalla disidratazione?

Aveva fame e sete e l'albero aveva dei frutti strani che non aveva mai visto sulla terra, aveva delle foglie strane che non erano di questo mondo, un ''profumo'', quel ''profumo'' e mangiò dei suoi frutti.

Oblunghi e ricurvi, l'albero aveva una forma con una  strana simmetria aperta come un ombrello apertoall'incontrario, quasi a cogliere la pioggia invisibile delle stelle e a portarla nei suoi frutti.

Quell'albero non era di questo mondo.

Nel momento che ne mangiò il sapore di quel frutto fu innominabile.

Una dolcezza che stava ai frutti della terra come l'everest a uno scoglio in mezzo all'oceano.

Quanto era andato in alto e quanto si sentiva profondo, larga la dolcezza del cosmo, profonda e ampia come gli oceani.

La sopra qualcosa si era rovesciato nella sua calotta cranica cambiandone definitivamente il contenuto.

Ringrazio Dio, ringraziò di essere vivo lì in quel momento.

Ora si sentiva diverso.

La rabbia la fame la sete erano spente e anche la solitudine.

Egli sentiva la bellezza di ogni abbraccio e avrebbe carezzato ogni mano, ogni fronte ogni capello.

Perduto non c'era più nulla e nessuno, egli li teneva per mano tutti con lui.

Gli si aprì il cuore.

La dolcezza, la dolcezza lo aveva rapito lontano a estasi infinite.

Ora sentiva di essere ritornato uomo.

Sentiva anche che se tutti ne avessero mangiato la guerra sarebbe terminata all'istante, guardò la stella polare e comprese che era lì l'origine.

Il suo cervello tornò allo stato dell'eden primigenio e comprendeva in pace, e accettava in pace sicuro finalmente della propria forza, non più da dimostrare in guerre vane e scienze non proficue.

Aveva il frutto in mano e ora sapeva qual era il suo compito.

Se avesse portato quel frutto all'umanità, e piantato e curato quei frutti e fatto crescere quegli alberi, se fosse riuscito a riportarlo all'umanità la guerra sarebbe finita e  il Signore rispettato avrebbe riscaldato i cuori degli uomini al ricordo vago dell'eden primigenio.

Ne mangiò a sfinimento.

Il suo cuore traboccava di gioia.

Era quel sapore.

Si caricò dei frutti per portarlo ai suoi fratelli.

Poteva morire fra le sabbie del deserto prima di raggiungere i suoi simili, ma sarebbe morto felice.

Il suo Signore era con lui.

Le stelle guidavano i  passi incerti dei suoi piedi scalzi alla flebile loro luce.

La stella polare lo guidava dal suo cuore.

La notte e la paura finalmente non lo lasciava più solo, quella dolcezza, quella dolcezza lo avrebbe guidato.

mercoledì 23 agosto 2023

Casa

 La notte è immobile e sonnacchiosa.

La nera porta del vuoto si spalanca sui nostri corpi.

Il vuoto silente è caligine che sale dalle ceneri fumanti del nostro piacere.

Come un immenso fumo nero si sprigiona dalle ceneri rossastre dei nostri corpi.

Il calore accende i sensi all'inverosimile.

La lampada verde dona tonalità all'oscurita' che sono il suo vestito.

Mi chiedi di spegnerla e accendere l'amore.

Di abbracciare l'oscurità nuda e con essa il tuo corpo.

Ho percorso molta strada, molte nuvole corrucciate hanno espresso biasimo.

Ora che sono venuto, il vento fresco silente viene a carezzare come una mano il mio sudore.

Tu scappi e già non  ci sei più. 

Il silenzio dalle immobili colline, mentre il rumore di un motore si allontana.

Ora quelle nuvole stanno a guardare invisibili.

Credevo di non trovare più casa e ho trovato la luna.

Dolce come il latte, silenziosa e materna.

Il creatore esiste?

Senz'altro l'universo è stato generato in un fremito di piacere, nell'amplesso sfrenato di due energie cosmiche.

Senz'altro la lampada del cosmo che è il vestito dell'oscurità, andava spenta.

Le nubi di orione ora rilucono tenui.

Entra dalle finestre il canto delle stelle.

Gelido è il mattino che uccide il piacere.

Lasciale cantare, lasciale cantare per sempre.

Al principio al principio era la luce.

Splendeva il senso del mondo in arazzi policromi.

Sfrenati gli amanti cosmici l'hanno spenta.

E si è creato il cielo nero in cui concupire.

Dai due amanti si generò il principio.

Il talamo del cosmo era pronto.

Se ne andò lei ebbra mentre il suo corpo era stato fecondato.

Il vento freddo degli spazi siderali le asciugò la fronte.

Da una goccia di sudore nacquero gli oceani e la vita su questo pianeta.

È fuggita per sempre?

I cuori palpitano all'unisono.

Nessuno può sapere.

Ma la mezzaluna ferma illumina la notte.

Ovunque fra i deserti del mondo, se ci si lascia prendere la mano da lei è casa.

E alla sua casa ella tornerà. 

E la luna mi conforta:questa è casa, alla sua casa ella tornerà. 



lunedì 21 agosto 2023

Gli antichi

 Eravamo entrati nel pianoro fra le montagne ed era di nuovo notte.

Le nostre fiaccole bruciavano illuminando gli alberi nella valle profonda.

Avevamo mangiato poi ci eravamo fermati e sdraiati.

La via lattea si stendeva come un tappeto.

Come un tappeto.


Ho sempre avuto l'impressione che l'esistenza sia un pendolo.

Un pendolo tra le stelle e la terra.

Sfinito chiusi gli occhi e guardai il cielo.


Espirai la mia anima molto lontano.

Molto lontano.

Rannicchiato sulla terra il giorno, disteso lì la notte, uscii da me stesso e andai lassù. 

Non sapevo se io ero entrato in cielo o il cielo in me.

La clessidra si rovesciò e la sabbia del passato scorse all'incontrario sopra le nuvole.

Stavo sognando.

La notte è in me, la notte è in te.

Si sono persi gli antichi.

E hanno acceso fiaccole nel bosco.

Vagano con le fiaccole delle stelle nelle mani.

Sono persi nel biancore tenue,

alla sommità del vuoto nero

dentro di noi.

Gli antichi dal cielo ci esplorano,

si sono persi in noi.

E noi crediamo

Di esserci persi

su uno sciocco mondo solitario,

le stelle sopra di noi,

le fiaccole dentro al bosco

e le grandi montagne attonite,

che si stagliano al confine.

giovedì 17 agosto 2023

Il lavoro , l'anomia e il lockdown

 Ci tengo a esplicitare alcune riflessioni.

Adesso è in voga una filosofia che in qualche modo attacca il ''lavoro'' in quanto valore ''fondativo'' della nostra società.

Io cerco di dire la mia analizzando che cosa è diventato il lavoro, che cosa è stato e perché rischia effettivamente di ritorcersi contro l'uomo.

Qual è l'antitesi del lavoratore come figura storica per me?

Il ''disoccupato''?

Il ''fancazzista''?

Il nobile signore che può permettersi di non lavorare, perché è ricco e nobile? (figura desueta al giorno d'oggi la mistica del lavoro è talmente potente che tu ti ritrovi gente ultraricca che compete con te pur non avendo necessità di guadagnare quei soldi).

L'ultimo è forse il più vicino a ciò che io credo sia l'antitesi del ''lavoratore''.

L'antitesi storica del lavoratore è il filosofo.

Per me.

Che è stato tendenzialmente qualcuno sufficientemente abbiente da condurre una vita di osservazione e non di azione e in cui l'azione tuttavia lo abbia preso nel suo lato più intimo e mentale.

Grandi inventori, grandi scienziati, filosofi, i grandi del pensiero, erano ''lavoratori''?

La risposta è NO.

Alcuni meno abbienti di altri si sono  arrangiati a trovarsi un occupazione con cui avere di che vivere, ma di fatto tutti costoro avevano un minimo comune denominatore: ''molto tempo libero''.

Se noi vogliamo tirare un primo proiettile contro il concetto di ''lavoro'' moderno dobbiamo renderci conto che l'eureka di Archimede è stato pronunciato mentre ''cazzeggiava'' si direbbe oggi, alle terme.

Idem per la mela di Newton che lo ha colto in un momento di evidente ozio.

Einstein più moderno si è arrangiato con un lavoretto burocratico che lo impegnasse poche ore al giorno, ma non ha consegnato il senso della sua esistenza al fatto di mettere timbri, né si è lasciato abbattere dalla sua insignificanza, ha approfittato del tempo libero che gli regalava per analizzare la realtà.

Nessuno di questi tre fisici faceva il ''fisico'' di ''lavoro''.

Tutte le conquiste della storia del ''pensiero'' appartengono alla dimensione dell'ozio.

E questo toglie qualcosa al concetto di ''lavoro''?

No.

Non è che se tu metti dei mattoni per terra sei inutile, no sei necessario, certo che lo sei...

Però restituisce utilità all'ozio, ripristina in qualche modo una certo qual valore alla fisiologia dell'ozio nel processo cui l'homo sapiens si è autoinvestito: ''comprendere e dare un senso alla realtà''.

La modernità vive di dinamiche differenti ''ciò che tu sei è ciò che tu fai''.

(Non il contrario che semmai è più vero, ciò che tu fai è ciò che tu sei).

Qualifiche, titoli, specializzazioni ineriscono alla dimensione del lavoro.

I patronimici nobiliari sono andati in pensione, meglio fregiarsi di un dott. ing. cav. figl. de putt. lup mannar. di fantozziana memoria.

La rivoluzione industriale ha sparigliato le carte in una maniera che è necessario, compiere un ''lavoro'' per analizzare il significato nuovo di queste, le piccole grandi bugie, che si celano dietro.

Primo step.

Ok nessuno dice che il lavoro non sia in qualche modo ''necessario'', ma in che senso?

I soldi?

Sicuro.

Per la carità.

Ma diciamocela tutta, qui è un pò come quando la gente non fa figli trincerandosi dietro il fatto che non ha soldi sufficienti a mantenerli, e tu rispondi, il punto è che ''sono i poveri a fare figli, mica i ricchi''.

La società moderna industriale va sbugiardata quando si trincera dietro la foglia di fico della dimensione della ''necessità'' , le sue dinamiche ineriscono si a necessità, ma non del tipo precedente, di tutte le società mai esistite è quella che garantisce meglio e di più la sopravvivenza fisica, il cibo, riscaldamento.

Ergo non è scomparsa la dimensione stringente e violenta della ''necessità'' è pieno di gente che dorme per strada, però la necessità fisica, è ridotta e non può né deve essere utilizzata come foglia di fico per non guardarci come siamo fatti realmente.

Ha preso strade più astratte, più psicologiche, senza la consapevolezza di ciò.

Tu lavori perché si non hai soldi per poterti permetterti di stare a casa?

Ma siamo sicuri che ce li avessi staresti a casa?

Il punto è che ''stare a casa'' anche ammettendo la necessità di una ''casa'' non piace.

E' distruttivo.

E' angosciante.

Ci si rende conto della vuota natura del tempo.

Ci si sente inutili.

Si vivono con maggiore violenza la pressione delle domande che ti scoppiano in testa.

Si pensa (cosa cui la nostra epoca cerca ACCURATAMENTE di evitarti).

Si ricorda.

Si immagina il futuro.

Ci si chiede che fine ha fatto quella persona o quell'altra.

Che fine faremo noi.

E' pesante.

Più di una giornata di lavoro.

Perché infatti, tu mica non fai nulla, tu agisci nella tua mente.

Oddio c'è chi proprio non fa nulla anche nella sua mente.

Il ''lavoro'' è cambiato.

La prima reale concreta necessità del lavoro al giorno d'oggi non è il piatto di minestra, è strapparti alle grinfie dello ''stare a casa'' con tutte le conseguenze del caso.

E' una necessità psicologica.

Devi tacitare quelle voci chiamate pensieri ricordi, fantasmi del passato, angoscia del futuro e nel caos lavorativo ci riesci perché sei sempre sballottato da un problema diverso pressante, stancante che in qualche modo esaurisce le tue energie fisiche e mentali, diminuendo l'energia che tu puoi dare in pasto ai fantasmi della tua mente.

Ma io te lo sto descrivendo quindi come una cosa negativa?

Non necessariamente, sto solo invitandoti a smetterla di mentire.

Dovendo fare una metafora sembrerebbe il processo di un runner.

Io corro.

Conosco bene la necessità fisiologica della mia MENTE, così tormentata dal pensiero, di liberarsi attraverso un processo in cui vive la forza del corpo, la sua stanchezza, il sole, la sete, il caldo, la salita che ti taglia le gambe fino a che sei sfinito.

Mai comunque a sufficienza da smettere di pensare del tutto.

Pensi solo in un modo diverso, più libero.

Il punto è che anche il runner più runner non corre mai tutto il giorno.

Quindi non può arrivare mai all'estremo del lavoro.

Il lavoro poi, al giorno d'oggi, essendo svincolato spesso dalla fatica fisica è proprio in ragione di ciò esteso a orari che diversamente la popolazione lavorativa, e i cosiddetti ''workaholic'' i drogati di lavoro, non potrebbero reggere.

La corsa è una metafora, ma imperfetta, è un lavoro FISICO autoimposto, è un qualcosa che quando hai finito la benzina ti fermi e stop senza troppe ansie o sensi di colpa perché ti sei fermato, è il tuo corpo che ti dice stop.

Un conto è correre 10 ore al giorno un conto è lavorare 10 ore al giorno.

E' ipocrita e assurdo vantarsi di lavorare 10 ore al giorno, mica sollevi pesi 10 ore al giorno, se fai un lavoro fisico tuttavia, questo vanto avrebbe un suo perché.

Perché è veramente concreto e oggettivo.

Diversamente una scrivania non può definire in modo obbiettivo il livello di sforzo di ciò che stai facendo.

Se vinci la maratona di New York hai ragione a vantarti, se invece lavori dieci ore al giorno io non so quanto credere al livello del tuo sforzo, ne posso paragonarlo in modo obbiettivo ad altri.

Dipende dal tuo concetto di lavoro.

Il lavoro essenzialmente così come è concepito al giorno d'oggi cerca di dare alla dimensione della necessità fisica il compito di esaurire delle necessità psichiche.

Ma è proprio qui il punto.

Il punto è che il ''lavoro'', se prolungato, esteso a dei lunghi orari entra perfettamente all'interno di una tipologia di personalità che diventa il vero nucleo di pericolo della società moderna:

''La personalità asociale camuffata da prosociale, la disgregazione di qualsiasi forma sana di socialità e del corpo sociale.''

Durkeim il sociologo, da un nome a questo tipologia di male moderno e lo definisce ''anomia''.

Tuttavia sbaglia analisi a mio avviso, e attribuisce questa forma di sostanziale malessere alla ''assenza di leggi e regole morali'' provocata dallo  stress del ''cambiamento continuo'' del mondo moderno.

E no.

Gli attribuisce la colpa dell'incremento del suicidio e del crimine violento.

E si su quello ha ragione

In parte ha ragione.

Quando identifica il cambiamento continuo come qualcosa che spiazza l'umanità ha ragione.

Non è qualcosa che ci fa bene.

Peccato che il cambiamento continuo che nella modernità viaggia a velocità folli rispetto al passato sia una legge di natura cui nessuna epoca è stata esente.

Non viaggiava a questa ''velocità''.

Ma il punto non è questo.

A disgregare il corpo sociale non è l'assenza di norme, anche di natura morale dettata dal cambiamento, a disgregare il corpo sociale è il ''lavoro moderno''.

Il porre in essere tutta una serie di logiche e norme comportamentali destinate alla ''funzionalità'' del ''lavoratore'' a favore del ''lavoro'' ma a scapito delle norme morali anche vigenti in quella società.

La logica del ''lavoro'' impone di porre le dinamiche del tuo ''lavoro'' al di sopra delle dinamiche della tua società, cominciando dall'ignorare i tuoi affetti e le persone che ti stanno vicino, le loro necessità, usando la scorciatoia del lavoro come ''nobile causa'' universalmente (e ipocritamente) riconosciuta.

E se ignori le necessità di chi ti sta vicino, come puoi accogliere quelle di chi ti sta lontano, come puoi prestare attenzione al barbone che giace in mezzo alla strada, diamine TU HAI UN LAVORO, TE LO SEI SAPUTO MANTENERE SEI SUPERIORE A LUI E NON HAI TEMPO PER LUI.

Se dovessimo definire la parabola del ''buon samaritano'' in termini di lavoro concepito in termini moderni, il lavoro così come oggi è inteso è lontanissimo dalla concezione ecclesiastica dell'ora et labora, della concezione antica, anche cristiana, è la sua antitesi.

E' che lo scriba e il fariseo sono delle persone di successo, dei bravi lavoratori che ''hanno fretta'' perché il ''sinedrio'' e altre ''nobili istituzioni umane'' li attendono, quindi passano sopra al malcapitato senza prestargli attenzione, il ''buon samaritano'' è un ''disoccupato'', magari uno ''statale fancazzista'', una persona poco integrata nella società che dunque ha il tempo di fermarsi e soccorrere il malcapitato.

E nella realtà della parabola originale è proprio quello il punto: non ha un valore per la società e in virtù del suo non valore egli dedica all'altro il suo tempo e le sue energie.

Ora.

La logica che soggiace la perdita di norme di cui parla Durkeim è insita in questa contraddizione, tra il tentativo di carpire il favore del ''corpo sociale nel suo complesso'' e il tentativo di ''carpire il favore del singolo''.

Tra interazione come gruppo sociale complessivo, con gerarchie e norme collettive, e interazioni fra singoli individui e microgruppi sociali dotati di norme autonome.

Nella società moderna il ''lavoro'' carica tutti di un peso per ''compiacere la società'' che finisce per dividere i singoli per privarli delle loro relazioni personali.

La più ignobile forma di mancanza di rispetto che serpeggia al giorno d'oggi si chiama ''non ho tempo per te''.

E' questa la pietra tombale del corpo sociale, il crimine contro l'umanità non dichiarato.

La forma più bieca di nascondimento del proprio egoismo.

Uomini e donne sorridenti e molto impegnati ti tagliano ogni possibilità di interagire con loro, dicendoti non ho tempo, dando l'ignobile compito di mostrare la loro indifferenza, al sacro lavoro.

Ma il fatto è che non necessariamente sono dei totali ipocriti.

E' il ''lavoro'' che li guida a questa ''anomia''.

Di giorno in giorno, essi maturano la convinzione che sia il lavoro a conferire un senso alle loro esistenze, e di giorno in giorno, essi trasportano nei loro posto di lavoro e nelle relazioni umane che ci sono in esso il valore delle loro vite.

Perdendo di vista non solo gli altri, ma proprio il mondo intero.

Fuggono dalla realtà.

Si illudono di avere un senso, di essere importanti, si inorgogliscono, si insuperbiscono, si sentono una casta a parte dal resto dell'umanità, che dunque guarda con disprezzo agli altri, ah si, ''io mica ho il tempo''.

E' la mistica del ''fare le cose'' anche e sopratutto se non sono necessarie.

L'importante è ''fare''.

Indipendentemente dagli effetti.

E così la gente è talmente drogata dal lavoro che appena ha una settimana di ferie, va in ''vacanza'', magari al villaggio turistico, mica sta a casa, se no diamine che vacanza è?

Noi avremmo bisogno di una vacanza da noi stessi diceva qualcuno...

Ecco il lavoro, la società in generale è una suprema eterna vacanza da se stessi e dal mondo un' ignoranza della legge spietata che lo domina che ti diventa reale quando sei fermo, non quando sei in movimento.

Volontariato, vacanze, fiumi di turisti cretini che premono per un lembo di acqua di mare, anche fuori dal ''lavoro'' vale la logica anomica della società moderna, muoversi fare, disfare, per la semplice realtà che sedere può essere sgradevole.

Il buon samaritano di oggi sarebbe il volontario inquadrato?

No.

Il buon samaritano è chi ha tempo per te, chi prende una birra assieme, chi si fuma una sigaretta assieme nelle pause di quel cazzo di lavoro, chi ti risponde al cellulare, chi usa il cellulare per telefonarti e non per ignorarti.

Il lavoro oggi come oggi è solo fuga dal mondo e da sè stessi.

Cosa è stato il lockdown se non il vero disperato bisogno di una società agonizzante in virtù non solo del ''lavoro'' ma dell'anomia, di fermarsi, e di fermarsi a casa propria, non in un villaggio vacanze o altre contraffazioni che ''tengano impegnati''?

Il lockdown non aveva nulla a che fare con il virus, era il mondo che prendeva la palla al balzo per fermarsi a guardare che cos'era diventato.

Era una vacanza da quell'eterna vacanza a noi stessi che è diventato il mondo, lavoro compreso, e villaggio vacanze finalmente vuoto.

Un obbligo morale a sedere solo con te stesso senza fare nulla.

In casa.

Non nel villaggio vacanze o nelle fintosocialità dei bar.

Proprio per spazzare via ogni residuo di finzione di ''essere in compagnia'' o fianco di ''appartenere realmente a una qualche forma di gruppo sociale piccolo o grande.''

Fai il bene della collettività se siedi solo con te stesso , ma mica per il virus, tutti gli uomini più grandi che hanno beneficiato l'umanità lo hanno fatto dopo aver seduto soli con se stessi.

Non solo scienziati, tutti, Buddha, Cristo, Tesla, Cartesio.

Ecco cosa è stato il lockdown, una necessità psichica ancora una volta camuffata da una necessità fisica, forse che cento anni fa lo hanno fatto con la spagnola?

No.

Ma non ce n'era evidentemente la necessità psichica.

Ergo il mondo è peggiorato.

Il dramma della modernità è che la tecnologia ha preso l'ozio antico e ha consegnato tutte le sue virtù dolorosamente terapeutiche nel cesso degli smartphone.

Di un ozio a binari precostituiti che non ti da la possibilità di essere veramente solo con te stesso e gridare eureka mentre sei alle terme o sotto un albero che ti cade una mela in testa.

Si parla di capitalismo, di anomia, in termini definiti da sociologi e filosofi dell'ottocento quando si c'erano ancora grandi uomini in grado di pensare e vedere il mondo intorno a loro.

Dobbiamo criticare i mali moderni comunque utilizzando una fraseologia e una concettualizzazione tipica di questi comunque grandi uomini dell'ottocento.

Ma non siamo più nell'ottocento.

E il capitalismo, l'anomia hanno preso dei panni che non sono neanche ''diversi'' sono semmai più vicini alle motivazioni autentiche per cui si muovevano cento o duecento anni fa.

Ha ragione Durkeim, suicidio e omicidio dipendono dall'anomia, ma sbaglia su questo concetto.

Il problema è la rabbia dell'individuo, il suo accogliere il divario fra le norme espresse in modo esplicito, e quelle di prassi dettate dalla quotidianità.

Non è un problema di mancanza di norme NO.

Noi siamo pieni di norme, imbottiti di norme, di morali e di moralisti di ogni tipo e specie.

E la contraddizioni tra quelle ''norme'' e la ''prassi quotidiana''  l'anomia. 

E più questo mondo si industria, tira fuori nuove norme, nuove morali, e più si dimentica del problema di fondo.

La relazione fra individui.

Le leggi elementari che ti mettono a confronto con un tu individuale sono diverse da quelle che permeano il branco.

E non è ipocrisia in sè e per sè.

E' una delle discrepanze umane.

Di cui ti rendi conto ogni volta che sei solo con qualcuno.

O con te stesso.

Si, bloccare il lavoro, con tutta la sua mistica sarebbe una gran cosa.

Catastrofi pandemie e guerre sono le uniche incaricate a compiere un tale nobile scopo?

Ma perché?

Non ne potremo fare a meno senza bisogno del virus o dell'atomica che ci esplode in testa?

A quanto pare no.

Siamo ancora troppo fragili per poterne sopportare le conseguenze per potere essere sufficientemente onesti con noi stessi.

Dobbiamo sempre dare la colpa a qualcosa o qualcuno delle nostre mancanze nei confronti di questa pseudomorale collettiva.


mercoledì 16 agosto 2023

101 storie zen del cazzo, il Buddha iettatore

 Dall'estratto del libro:

"Quando il Buddha si addormento' nessuno notò la differenza col nirvana, quando ebbe il RISVEGLIO pero' si"

Il Buddha era seduto in meditazione.

Giaceva giaceva.

Mai che capiva.

A volte si accendeva delle sigarette.

Giaceva nella natura.

La natura è maestra di vita.

Un giorno continuava la solita inutile catena di eventi.

Lui guardava il prato.

E notava che c'era una mosca e una lucertola.

La lucertola cercava di acchiappare la mosca ma la mosca era più veloce di lei è per sfotto' quando la lucertola credeva di averla acchiappata lei volava via e lasciava uno stronzo,  la lucertola, pensa che faccia faceva quando si ritrovava sempre uno stronzo davanti al più bello.

E il Buddha penso' "ma qual è la metafora della vita che quando uno crede di aver acchiappato qualcosa si ritrova solo uno stronzo davanti?"

La lucertola entrò in depressione il Buddha anche.

La lucertola dopo tutta la giornata che tentava di acchiappare la mosca smise di tentare.

Giaceva ferma esausta sentendosi una lucertola fallita.

La mosca invece si sentiva molto furba.

C'era un ragno che faceva una ragnatela sempre nello stesso punto e passava un corridore e gli sfasciava la ragnatela.

Anche lui voleva acchiappare la mosca e si sentiva fallito.

Andarono dal Buddha a chiedergli consiglio e lui gli disse: " se credete che dipenda da voi morirete ."

Che brutto consiglio, che brutte parole, che brutto Buddha, che brutto mondo, che brutta storia, andarono in depressione ancora di più. 

Si immaginarono di morire di fame senza quella cavolo di mosca.

Un giorno il corridore tardò a venire e il ragno fece tempo a fare la ragnatela.

Lui credeva che sarebbe stata sfasciata anche quella ma invece il runner non era ancora passato e la mosca rimase rimase impigliata.

Il ragno fu contento e si credette furbo,  un ragno di successo, ma la lucertola vedendo la mosca impigliata si avvicinò e se la mangiò. 

A quel punto già che c'era mangiò anche il ragno.

E si credette brava più del ragno, e credette a stomaco piena di essere l'artefice del suo successo e già andava sognando di scrivere libri su come acchiappare le mosche e di briatoreggiare.

A quel punto il corridore che tardava a venire venne e correndo rapido mentre lei era satolla e contenta, la schiaccio' senza avvedersene.

Il Buddha dentro di sé riflette e quando gli chiesero qual era la morale di tutta questa storia fu ben cauto a parlare.

" Una morale vera e propria non c'è e se va la dicessi tronfio sarei sciocco come quei tre".

"E' semplicemente una storia zen del cazzo"

"Il punto  se devi trovare un punto, è quello che ho detto a loro tre, se non ti rendi conto che non dipende da te, e ti vanti del successo o ti deprimi nell'insuccesso fai una brutta fine".

"Ma sopratutto che la sfiga è in agguato soprattutto nel successo".

"E poi non so volendo proprio trovargli una morale è che se non acchiappi quel che credi di dovere acchiappare è perché in realtà il destino ti sta proteggendo".

Poi fermò il runner e gli disse cotali  nobili parole:

"Cazzo corri stronzo?"

E lui gli rispose davanti a tutti credendo di umiliarlo " io sono tre mesi che mi alleno e finalmente ho fatto il tempo che mi promettevo di fare, tu invece guarda che ciccione del cazzo menagramo che sei, con ste storie inutili  demoralizzi la gente, ma fai a fare un po' di ginnastica coglione!"

La nobiltà era di casa al villaggio e che dottrina!

E correndo tronfio finì sotto un camion.

Tutti si toccarono i coglioni e da quel giorno il Buddha fu giustamente considerato uno iettatore e nessuno volle più saperne delle sue storie zen.


domenica 13 agosto 2023

Il Buddha albero (polemica sul Buddhismo)

 E l'albero incontrò l'albero Buddha e così volle istruirlo:

''tu non sei le foglie, tu non sei le radici, tu non sei i fiori, tu non sei i rami, tu non sei il profumo, e nemmeno la terra.''

''Sono forse il sole che risplende sulle mie foglie?''

''No'' disse l'albero Buddha.

''Sono forse la pioggia che cade sulle mie foglie?''

''No'' disse l'albero Buddha.

''Tu non sei, non hai un sé indipendente, nulla in te è la sede legittima della tua identità''.

L'albero discepolo si indispettì e disse:

''Orbene io non sarei né le foglie, né le radici, né i rami, né i fiori, né i semi, né i frutti, né la pioggia, né il sole, se tu mi facessi la grazia di dirmi chi sono sarei contento.''

L'albero Buddha sedette tranquillo e rispose domandando:

''Se ti cadono le foglie d'inverno, tu cessi di esistere?''

''No poi ricrescono in primavera.''

''Se i tuoi fiori petalo dopo petalo si sfaldano tu cessi di esistere?''

''No tanto poi crescono le foglie e i frutti.''

''Se un frutto e i suoi semi cadono da te, tu cessi di esistere?''

''No anche quello certamente fa il suo ciclo e si riforma.''

''E se ti segassero del tutto, e togliessero anche le radici, tu cesseresti di esistere.''

''Si credo.''

''Vedi'', disse l'albero Buddha....

''Se una foglia o un seme e un frutto, ricresce su quello che chiami un tuo ramo, secondo te tu non cessi di esistere, se invece quel seme e quel frutto ricrescono su qualcosa che tu non pensi di essere tipo un altro pezzo di terra, secondo te tu cessi di esistere, eppure finora qui è pieno di alberi, e ognuno discende dai tuoi semi.''

L'albero non parve molto contento della risposta.

Per niente.

''Sai qual è il punto?'' gli rispose:

''E' che per gli dei e il mondo, si, il punto è semplicemente, che ogni cosa tagliata ricresce, che ogni frutto caduto e marcito porta in terra i semi e ricresce e ogni volta che il frutto muore, ed egli sul serio muore e crede di essere morto per poi dare vita a nuovi alberi agli dei e anche a me, viene sempre un sorriso, ed è con dolore che  lascio andare i miei frutti, ma se li tenessi sulla mia pianta essi marcirebbero e basta, e così per i miei fiori, io li amo, ma che amore sarebbe se non li lasciassi andare?''

''Tu forse non capisci, è che tutto ha un senso e se muore, è proprio per la semplice ragione che ha un senso, un fiore eterno, non porterebbe frutto alcuno.''

''Per ogni inverno una primavera, e per ogni primavera un inverno e credimi il vento è così carico di felicità anche e sopratutto d'autunno, perché è quello il momento in cui la vita rientra nel grembo di sua madre.''

''Quel che noi abbiamo imparato è che il mondo è in pace e dunque non ha fretta alcuna di mostrare ai semi e ai frutti che gemono e languono nelle pozzanghere d'autunno i fiori della primavera.''

''E' per questo che tace e non gli da risposte.''

''Tace perché è in pace.''

''Noi sappiamo che quando è il tempo è il tempo e che anche e sopratutto l'autunno e l'inverno sono belli e necessari''

''Chi sono o chi non sono è solo un problema semantico di linguaggio, non mi interessa della tua idiosincrasia per il verbo essere, io ti dico solo, che per ogni frutto che si stacca e fiore che cade, tutto ricresce, anzi, quello che il frutto chiama morte perché si stacca dal ramo, la terra e il bosco lo salutano come nuova vita con grande gioia, e a dirla tutta, anche con molta indifferenza dei suoi lamenti, e forse ora capisci il perché.''

''Questo io so, questo sa il bosco, questo sanno le foglie, il vento e la pioggia e credimi, pur non sapendo chi siamo questo per noi è sublime beatitudine.''

''E tu anziché coglierne la meraviglia vorresti bloccare tutto questo chiamandolo samsara solo perché ogni essere geme e si lamenta ad ogni nuovo cambiamento?''

Il Buddha albero chiese pacatamente quale fosse la religione dell'altro e non fu più così convinto della sua.

In compenso nel suo intimo sorrise sul serio.