venerdì 27 ottobre 2023

La candela

 Il lenzuolo si stendeva ampio e da esso emergevano le mille forme.

Mille volti e lui li contemplava.

Nel lenzuolo il vento della notte si era infilato e faceva crescere le mille forme i mille volti.

Ogni volto emergeva e poi spariva.

Lui li vedeva mentre era seduto.

Mille volti, uno dopo l'altro, o insieme.

Il suo volto emerse e poi anche il corpo, sotto il lenzuolo la stava accarezzando e le mani da sotto il lenzuolo carezzavano lui.

Era lei che lo amava da sotto il lenzuolo, la sentiva, la carezzava e le sue mani carezzavano lui.

Ma lui prese il lenzuolo e tentò di scoprirla, per vedere che rimaneva più il nulla.

L'aria sotto il lenzuolo fuggì nel vento della notte.

La luce della Luna inseguiva le nubi ed egli le vide.

Il ricordo di lei si specchiava nella Luna.

Anche le altre mille forme erano sparite.

Ciònondimeno era in lui il ricordo.

O fuori di lui?

Già quando aveva lasciato il lenzuolo per terra le mani si protendevano ed altre forme si formavano.

E allora comprese, comprese che doveva dimenticare se voleva ritrovarla.

Mille forme e come avrebbe potuto riconoscerla senza il ricordo?

Un'immagine era il ricordo, o cosa, qualcosa che pulsava nel suo cuore, si diffondeva nelle sue arterie?

O la candela che brillava nella stanza e illuminava le forme? 

Il vento l'aveva portata via e già in un altra stanza si stava alzando la sua forma?

Ma per le colline e per i dirupi c'era solo il silenzioso benestare della notte.

I lupi danzavano e ululavano alla Luna.

Ricordavano anche loro.

E vide il sole in uno scrigno, e il sole si spense.

Sotto di lui le onde del mare si infrangevano nell'oscurità.

Afferrò il demone che giaceva nelle profondità del mare e non colse nulla.

Nella stanza sentì il passo morbido di una donna che soffiò sulla candela e la spense.

La dimenticò.

Solo allora nel buio la riconobbe.


venerdì 13 ottobre 2023

Una mela d'Ottobre

 Anche se l'amore è perduto

E si sa

Nulla sfugge al fato

E chi mi perdonerà?

Perdonami tu

Che leggi adesso

non sono capace di farlo

io stesso.

Di certo che mentre

La sera muore

Io mi chiedo che cos'è l'amore?

Potessi riavere il tempo passato

Io non l' avrei lasciata?

Tu ti senti

Un vero bambino

A non saper prendere 

Per buono il destino.

Tu non sai cogliere i fiori

D'estate

Perché ti penti

forse  che d'autunno 

Le mani son vuote?

E lasci il compito

A una poesia

Del tuo dolore

Mandarlo via.

Le stelle lontane

Son buone a far rime

Ma buono a nulla

E chi scavalca le cime

Poi torna indietro

Al passato.

Come se si potesse

cambiare il fato.

Come se il sole

 che la sera muore

Più non tornasse il mattino.

E tu ti senti un vero bambino

A non saper prendere

Per buono il destino.

Eppure questo è l'amore

Gli occhi son nuovi

Eppure son quelli

Sentirsi sul viso

I tuoi capelli,

Aver mangiato

d'autunno una mela

Ad ottobre.




martedì 10 ottobre 2023

La mano

 I filosofi greci arrivarono con Alessandro Magno nell'India.

Vigeva una tale filosofia allora chiamata Buddhismo, i gimnosofisti li chiamavano i greci, perché essi non indossavano vestiti e discutevano nudi della verità e della filosofia.

Amalek il Greco conobbe il Buddha.

''Salve o Ghandarva io vorrei invitarvi all'agorà a dibattere con noi, spero sia di vostro gradimento.''

''Salve o Amalek il tuo nome non è greco eppure tu discetti da filosofo greco?''

Amalek disse:

''O Gandharva ciò che uno è e ciò che uno crede di essere non sono la stessa cosa, vieni a discettare nell'agorà troverai molti uomini contenti di conoscere la tua dottrina, noi siamo greci perché non aderiamo a nulla di particolare, cerchiamo di eviscerare il mondo col potere del Logos''

Il Buddha si recò all'agorà.

Fu invitato a sedere.

Egli sedette alla greca per compiacere l'uditorio, la cosa fu apprezzata, era un uomo elastico evidentemente.

''Salve o Buddha, noi da sempre discettiamo di verità e di origine delle cose mostraci la tua''

Buddha rispose:

''Se tu credi che io conosca la verità ti fai trarre in inganno dalle tue stesse parole, verità è un concetto, nessun concetto è valido nel nirvana, il nirvana è aconcettuale''

''Però è accessibile, questo è il senso della mia filosofia, la verità è inaccessibile, perché è come cercare di entrare in uno specchio, ma se tu lucidi lo specchio, quello è il nirvana''

I filosofi greci tacquero per un momento.

Amalek continuò:

''Parla in greco con noi, ogni lingua è parte del processo di dialogo dunque spetta a te mostrare attraverso una corretta traduzione ciò che intendi esporre e non necessariamente a noi di imparare la tua lingua, la parleremo anche, ma nella agorà si discute in greco''

''Traduci Nirvana''

Il Buddha così tradusse:

''Credo si traduca con libertà se vogliamo rendere la cosa a voi greci''

''Amalek:''Perché dunque dicono che si traduca con estinzione o cessazione del soffio?''

Il Buddha:

''A voi il vento fa paura?''

''A me si'' disse Amalek il greco.

''Capisci il senso di questa paura?'' chiese Buddha.

Amalek:''mai capito il senso di qualsivoglia paura, tantomeno quella del vento''

Il Buddha:''il soffio, l'aria, il vento sono l'intima natura delle cose, neanche l'acqua liquida, ma l'aria mobile e ballerina, le foglie che vanno e vengono il senso di cogliere per un attimo un profumo e perderlo, c'è poesia nel vento ma non c'è stabilità.''

''Un profumo o un fiore dura il tempo che un soffio casuale si introduce nelle tue narici, è tutto casuale eppure nulla lo è, la polvere della morte inquieta l'uomo senza che egli sappia cosa l'inquieta''

Amalek:''io non ho paura della morte e non so neanche cos'è, in verità la mia gente non corre dietro né al vento, né alle paure e tantomeno concede parole al vento, sappiamo anche tacere, ma parliamo agli uomini e abbiamo piacere alla parola''

''Spiega il tuo concetto dunque.''

Il Buddha prese la parola:

''O Amalek io so che voi siete nobili e saggi e che le vostre parole e i vostri silenzi sono pregni della vostra dignità, ascolta le mie parole dunque e giudicale col tuo senso e non con il mio''

''O Amalek credo che l'archè di tutto sia il vuoto, e il mistero dello spazio infinito, credo che molti uomini si ancorino alla terra e che non lascino mai che i loro piedi non tocchino la solida pietra, alcuni più coraggiosi di altri non temono le acque e si spingono in mari lontani e colonizzano isole lontane, la tua gente è coraggiosa e nata fra le acque, ne sente il canto e non teme le nereidi e il loro tocco grazioso''

''O Amalek la vostra gente ha coraggio e naviga fra mari lontani fra ninfe e ciclopi, ma teme l'aria e la luce e affida a Icaro il compito di ammonire gli uomini sulla impossibilità di raggiungere il mondo dell'aria e della luce''

''O Amalek cogli il senso del mio viaggio, cogli l'isola che ho trovato nell'oceano, la ninfa dalla quale tu non vorrai più partire, o mio Ulisse coraggioso''

''Sono partito affrontando tutto ciò che mi spaventava affrontandolo e vivendolo, ho vissuto fame, morte, solitudine, disperazione angoscia e sangue''

''Sono annegato nelle profondità dell'essere fino a scoprire che nel fondo degli oceani, c'era il vento''

''Poi mi sono lasciato trasportare dal vento con paura e trepido amore, ho amato e sono morto come foglia avvizzita''

''Avevo paura, sentivo paura come avrei potuto non sentirla?''

''Provavo dolore, ricordi e campi morti d'inverno, mari gelidi e cuori freddi, ho rifiutato persino le mani che cercavano di cogliermi con pietà, pentendomi per poi scoprire che volevo afferrare il senso e non c'era nulla di cui pentirsi nel mio essere uomo, nel mio volere oltrepassare le colonne d'Ercole e anche nel mio avere paura e voler ritornare nella mia Itaca''

''Ho visto la bellezza di Nausicaa e la dolcezza della  vergogna delle ragazze di fronte a un uomo nudo e naufrago, anche la loro pietà rispettosa, il loro garbo, la dolcezza del loro sguardo rivolto verso il basso per non ferirmi eppure la loro mano tesa, le loro gote rosse, che pure sono la cosa più nobile e dolce che talvolta il mondo pare non avere del tutto dimenticato, io ho rifiutato''

''Nessun vestito indosso io naufrago, come vedi, sono un Ulisse più radicale, ho compreso che era il gioco del gatto col topo, il demone Mara dell'illusione quando sapeva di avermi in pugno rivestiva i suoi demoni di bellezza e garbo, egli sa cosa soffre ogni uomo e credimi più ti distacchi dopo ogni frecciata al tuo cuore e più lui arriva a carezzarti con falsa compassione per lasciarti ancora più nudo e naufrago nella prossima catastrofe, nel prossimo naufragio''

''E' un demone e non bisogna cercare di cogliere la raffinatezza del suo pensiero, egli ti incastra anche così''

''Egli si cura di creare ogni barca di modo che ti salvi dalle acque per farti morire  bruciato, gioca un gioco che è superiore al nostro stesso intelletto''

''O Gandharva parlami del porto e non del vento e delle acque, dimmi come tu o strano Ulisse straniero hai trovato la dimora'' disse Amalek il greco.

''Guarda questa mano'' disse il Buddha, ''l'ho sognata una notte e la guardavo, sognavo il mondo e la sua splendida luce, sognavo di essere tornato nella mia Itaca, di essere con mia moglie e di uccidere i miei nemici che la attentavano''

''Era successo era vero, era ''reale'' eppure sognandolo ho risognato le stesse cose, il cane Argo che è morto, Penelope fedele che mi ha riconosciuto, e tutto questo in virtù di una mano che ha saputo scoccare una freccia e colpire con precisione un bersaglio, io credevo.''

''Ho sognato un sogno strano che mi ha fatto riflettere, questa mano io non ne avevo coscienza nella realtà ed è per questo che è arrivata al bersaglio, nel sogno invece la sentivo e tremava e rischiava di non prenderlo''

''Quando ho tremato il mondo del sogno si è discostato dalla realtà, nella misura in cui non ne ero cosciente e non sapevo se fosse mia la mano, ha tremato''

''Ho capito che nella misura in cui pensavo fosse mia''.

''Il sogno era identico alla realtà, ma io ho sentito i miei pensieri e ho capito il nirvana, il potere è nella mano, e tutto il mondo essa può blandire amare odiare, uccidere e soggiogare, ma solo se la lasci fare.''

''Se tu dici alla tua mano colpisci il bersaglio lei non lo colpirà.''

''E se nemmeno una mano risponde a te, chi sei tu?''

Amalek il greco era stupito di questa rivisitazione dell'Odissea, non si immaginava che lo straniero conoscesse Omero e parlasse così bene la sua lingua.

Era veramente perplesso e si guardò la mano.

Tremava o non tremava?

Non tremava?

Tremava?

Era sua, non sua?

Prevalse la razionalità greca.

''Questa mano sembrerebbe mia o Ghandarva, di tutta onestà io non capisco come tu possa dire che non lo è, e se non lo è di chi dovrebbe essere, spetta a te dirlo e non a me perché io la riconosco come mia, e non ho dubbi dopo aver esaminato la questione.

''O Gandharva dimmi di chi è la mia mano se non è mia?''

Il Buddha prese l'arco e le frecce e le pose in mano ad Amalek.

''Vieni o Amalek, lascia che sia la tua mano a dirtelo''

''Tendi l'arco e la freccia e uccidimi''

''Non voglio'' disse Amalek, ''sono io che parlo che ti dico che non voglio''.

''Fallo se vuoi conoscere la verità''

Amalek era sempre più perplesso.

''Questi stranieri non conoscono il modo in cui si discute nell'Agorà'' ci fu disapprovazione da parte di tutti e un coro unanime di spregio verso questi modi barbari di affrontare la filosofia.

Amalek però ebbe un moto strano e impazzì, dopo che l'agorà rideva e si faceva burle del Buddha lui tese l'arco e lo colpì.

''Straniero se non sei pazzo dimostrami se questo è il nirvana io tutto sono disposto pur di conoscerla e nulla temo, neanche la barbarie del tuo modo di conoscerla.''

Il Buddha sorrise e si accasciò.

Amalek rimase deluso e umiliato di aver ascoltato un folle straniero, nulla gli faceva presagire di aver colto alcunché, eppure l'aveva ucciso.

Aveva obbligato a fare con la sua mano quel che la sua mano non voleva fare e aveva semplicemente dimostrato l'ovvio, la mano era la sua.

La folla era silenziosa, Amalek triste, il dialogo non l'aveva illuminato ma atterrito e anche l'ultima parte era orribile eppure l'aveva affrontata con la sua solida volontà.

Amalek era molto triste.

''Il mio amore per la verità mi ha portato a uccidere un uomo, eppure lo rifarei perché sono fatto così''

Non riusciva a dormire preso dal rimorso.

Pensava nel suo cervello che non doveva impazzire e farsi sedurre dalle parole di un barbaro invasato straniero, che aveva sbagliato, cercava di riportare indietro le lancette del tempo e di non colpire Buddha, di deporre l'arco e deriderlo insieme agli altri greci, cosa voleva insegnare un provinciale a un greco di volontà ferrea e di desiderio di conoscere il vero sopra ogni cosa?

Cosa voleva insegnare che già non fosse stato dibattuto mille volte in un agorà greca?

Non capiva.

Si diede all'ebbrezza del vino chiedendo a Dioniso di salvarlo della sua stessa empietà.

Amalek era solo nel suo letto quando si addormentò e sognò.

Era un legato romano di nome Ponzio Pilato in un villaggio palestinese e un pazzo con le stesse sembianze di quel Buddha già si palesava con quella odiosa ostinazione provinciale con cui questi barbari pretendono di insegnare a noi uomini della civiltà qual è la verità e il senso del mondo.

Gli chiese che cos'era la verità e lui non rispose.

Gli chiese se quella mano era la sua e urlò che era la sua e mai e poi mai avrebbe ripetuto quell'errore con un altro pazzo.

Mai si sarebbe sottoposto allo sgomento di un omicidio gratuito per scoprire il nulla e seguire le follie barbare di un rozzo straniero.

''Fatelo flagellare e liberatelo'' comandò risoluto.

''Questo idiota'' aggiunse.

Ma la folla era in tumulto e lui urlò ''cosa ha fatto di male costui?''

E la folla urlava ''crucifige!crucifige!''

Ossessi pazzi dannati!

Cosa toccava a un uomo razionale del mondo razionale in mezzo a zotici sanguinari!

Era incerto e riviveva il trauma dell'uccisione del pazzo indiano.

Non capiva.

Però era un incubo e fuori dal suo controllo.

Subiva più di tutti la colpa e l'irrazionalità del mondo.

Ma l'imperatore Tiberio non lo avrebbe perdonato del tumulto.

Ordinò di croceffigerlo contro la sua volontà.

Poi ebbe orrore della sua stessa mano e provò a mondarla del sangue con un gesto pubblico.

''Questo sangue non l'ha versato la mia mano, io me ne lavo le mani.''

Quel tale poi dissero che era risorto.

Si risvegliò stranamente felice, liberato di un peso.

Quella mano non la credeva più sua.

Andò a seppellire i resti dell'uomo che aveva ucciso nell'agorà.

E lo vide con suo sommo stupore vivo e vegeto nella posizione della meditazione.

''Hai sognato?'' gli chiese.

''Si'' rispose scosso e tremulo.

''Sei risorto?'' chiese Amalek.

''No, io mi sono accasciato ma tu non hai colpito.''

''Ho finto''

''Ricordi la tua mano Amalek?Quella mano era tua?''

Amalek era scosso e ora non tremava solo la sua mano, tremava tutto avvinto dal terrore.

Il Buddha lo prese gli mise in mano l'arco e lo aiutò a tenderlo da dietro.

''E' tua la mano Amalek?''

''Riesci a tenerla ferma?''

''Ora ricordi Amalek?Ricordi che hai tremato al solo pensiero di uccidermi, ricordi che la mano tremava, che la tua volontà non era tua, che la freccia NON ha centrato il bersaglio.''

''Amalek perdonami ho dovuto scuoterti per destarti, i tuoi ricordi sono ciò che è accaduto?''

Amalek tremava e piangeva ora ricordava che la mano si era mossa.

Si bloccò ritto nel rigore di chi è conscio che il ricordo è solo un pensiero, non la realtà.

''Tu eri preso dall'ossessione della  tua colpa, della tua volontà e della tua mano e del tuo assassinio da non rendere conto che hai tremato e non hai colpito il bersaglio.''

''Cosa sono i tuoi ricordi Amalek?''

''Il passato, il presente o il futuro?''

''O nessuno di questi?''

Amalek ebbe una vertigine.

Diamine la testa gli faceva pensare per passato una roba che era presente e viceversa.

Ebbe una vertigine.

Totale.

Un ebbrezza, un brivido lungo la schiena.

Il sudore lungo il corpo cadeva fradicio ma si quietò.

''Futuro, passato, presente'' disse.

''Non è il futuro, non è il passato, non è il presente, se potessi vederlo, vederlo realmente, non mi sarebbe apparso tale e mai mi apparirà tale''

''Hai sognato?'' gli chiese di nuovo.

Era in una sensazione distorta.

Non capiva più.

E allora capì.

A questo punto rispose:

''No, non ho sognato, non era un sogno''

''Stavo solo cercando di riordinare il tempo e gli oggetti e i soggetti del mondo senza riuscirci.''

''Bene'' rispose il Buddha.

Lui non comprese bene perché ma queste sue mani che non erano sue abbracciarono il Buddha.

''Hai sognato?'' gli chiese nuovamente.

''Ora non più'' rispose lui.

''Mi sono destato dal sogno, dall'incubo''

Il Buddha se ne tornò nella foresta sorridente Amalek impalato fermo.

Il vento che soffiava sotto le stelle solitarie, e il grande universo non faceva più paura.

Non era un flusso il vento ma una ricostruzione notturna, postuma, precedente, presente e futura.

Ogni foglia andava in una direzione diversa e il vento soffiava e lui sorrideva dei sogni dei mortali e della  paura che guidava le foglie tremule che avevano paura del vento.

Era la loro paura a guidarle.

Era la loro paura il vento e il destino.

Un incastro di sogni o cosa?

Ulisse non aveva centrato il bersaglio, solo amava molto sua moglie e aveva creduto di centrarlo.

Lei lo aveva amato e riconosciuto per quello.





sabato 7 ottobre 2023

La torre

 La regina stava rinchiusa nella torre.

''Oh come è possibile che il mio principe sia si' crudele?''

''E io l'ho amato, i miei passi sono stanchi e più non ho voglia di alzarmi dal letto, ogni pietra di questa torre lugubre e senza finestre mi ricorda il suo volto luminoso, io sono stata accanto a lui prima che la sua mano si distaccasse, prima di non poterla toccare più''.

''Oh che crudeltà, io sono stupida e senza valore, come una schiava egli mi tiene rinchiusa qui, ma senza poterlo vedere, nulla ha più senso, dico la verità senza di lui io più non voglio neanche tentare di uscire senza che i suoi passi guidino i miei''

''Ma il mondo è grande''.

I candelabri illuminavano il volto pallido della regina che esangue moriva ogni giorno.

Ella fuggiva gli specchi.

Sempre più magra si abbandonava al dolore, alla tenebra più profonda ella sussurrava il suo canto:

''Dolce crudeltà, topo che rodi la mia carne, perché i pensieri volano lontani fuori di qua, come prigione è la realtà, se solo potessi ristringere la tua mano, ma il pensiero, che mi è breve conforto subito svanisce e si tramuta nei muri plumbei che vedono i miei occhi, in cui sono rinchiusa, e già più non vedo te e già ritorna la tortura crudele, la memoria è prigione peggio di queste pietre.''

Lo strazio si ripeteva nel buio della torre.

Ella tentava di uscirne ma senza successo.

Un giorno prese un libro e tentò di distrarsi dal dolore.

Parlava di una grande battaglia.

Descriveva come il principe sarebbe dovuto partire per combattere le legioni di demoni ai confini del deserto di pietra nera.

''Chissà che non stia parlando di lui...''

Nel libro era narrato di come il principe aveva dovuto lasciare la sua dama per difendere i confini da una schiera di esseri malefici.

Odio, carestia, solitudine, egoismo, paura, ansia, dolore, morte l'ultimo, il più temibile si chiamavano i re senza testa del mondo infero.

Nel deserto li aveva incontrati ed essi lo avevano vinto e ucciso.

Passo dopo passo ella si trovava a salire una scala ebbra della sua stessa fatica, senza finestre il suo mondo, rinchiusa, prigioniera, orfana, cosa più temibile di tutte, abbandonata.

Saliva le scale senza luce se non quella dei suoi candelabri.

Sette candele, tre da una parte, tre dall'altra, una al centro.

La mente oramai assente, guardava la fiamma, prese il candelabro e illuminò la stanza.

''Il ricordo è vicario di luce, senza il sole, qualcosa me lo deve ricordare''

Chiuse gli occhi.

I suoi piedi scalzi sentivano il marmo freddo e crudele.

Fu consapevole dell'eternità e della morte.

Già tutto le pareva un sogno.

Disse: ''sia lode a Dio, agli arcangeli tutti'''.

E camminò lungo le scale, passo dopo passo il marmo gelido la faceva trasalire.

Ma il candelabro illuminò una porta di ferro.

Una porta che appariva solo se illuminata da quella fiamma.

Solo dalla fiamma verde al centro.

Aprì e si rese conto di essere sulla sommità della torre.

Vaste erano le colline verdi che ella poteva vedere con il suo sguardo sovrano, verde l'erba sotto i suoi piedi già la consolava del marmo freddo.

Posò il candelabro e mai gli parse che il sole fosse più luminoso.

Egli scandiva sillabe di gloria sulle nuvole, egli sorgeva sul lago cristallino a oriente.

''Come è bello e vasto il tuo regno o mio principe'' disse.

''Ma io qui sono prigioniera anche se sulla sommità della torre, il tuo regno è perso per sempre, la morte ha trionfato, sia lode a Dio comunque.''

Un volo di uccelli bianchi, da sinistra a destra le parve il cenno di compiacimento della Divinità alla sua lode.

Scavalcò la ringhiera d'oro e si buttò nel vuoto per uccidersi.

Già vedeva con orrore il terreno verde che le correva incontro, fragile il suo corpo, eppure grave verso la terra e la morte.

Guardò il sole e ne fu estasiata.

Che luce.

Le pietre della torre parevano fatte di solida materia cristallina, l'edera verde era così risplendente, quasi che fosse un santuario.

Vide gli uccelli che volavano e ne fu incantata, volle essere insieme a loro.

E fu solo allora che battè le sue ali.

E si rese conto di averne un paio bianche e di poter volare.

E già il terreno non le correva più incontro e già ella saliva insieme agli uccelli bianchi, sempre più in alto, padrona del suo respiro dell'aria, verso la luce.

Incontrò il principe sulla montagna di smeraldo dove gli uccelli la condussero ed egli  le confidò:

''Sapevo che potevi volare quassù, finalmente sei uscita dalla prigione del tuo cuore, dovevi sperimentare la pena dell'abbandono per sapere di essere un angelo e poter volare, i nemici non possono più farti del male, eri tu a doverli sconfiggere con un battito delle tue ali.''



giovedì 5 ottobre 2023

Buona notte

Fravarti valchiria sorella
alle acque tu comandi
la notte è tua ancella.
Lascia ch'io ti spandi
il mio sole, luce divina
su nuvole bianche 
carezze di brezza marina 
baci la tua fronte
le tue lacrime stanche.
Rugiada,
notte inoltrata,
oscurità sospesa
stelle  alte sul nostro tetto,
concedi la tua resa
oh mia fata
al sonno, nel tuo letto.
Non avere paura
del serpente sul tuo cuore,
egli già lo ha morso,
il suo zucchero
tramuta il  male
in bianco cristallino candore,
in neve brillante la calura.
Le tue dita alla luna
sono più che sufficienti,
i fuochi del giorno spenti
che la pace ti conceda
nelle tue più buie ore.
Vento inoltrato
su cipressi che ondeggiano lenti,
se tu ti abbandoni
il fato
brillerà diamante
occhi tuoi contenti.