Quando decisi di partire per cercare vita nell’universo non mi aspettavo di certo che fosse semplice.
Sapevo che ero un Cristoforo Colombo, sapevo che i cialtroni che si riempivano la bocca di belle parole e di colonizzazione dello spazio da salotto televisivo non sarebbero partiti.
Io invece partii.
Anche un po’ tronfio della mia ostinazione.
L’epoca in cui vivevo ci aveva donato qualcosa di simile all’immortalità ma in pochi pensavano di sprecarla così.
Io emulo di Amundsen, Scott, e qualche altro assiderato o annegato in qualche distesa infinita non avevo ponderato ciò con cui mi sarei confrontato.
La terra è un pianeta irritante, una sfera blu tanto magica quanto capziosa buttata lì come un’opera d’arte , una sinfonia di quelle che non capisci se sono note prese a caso o se c’è del metodo in queste note, perché a volte risulta bello, ma per rari momenti a cui seguono interminabili ripetizioni di fraseggi rumorosi, inconsistenti e molesti.
Da dimenticare, insomma.
Ho provato a dimenticarla, ma non ci sono riuscito.
Partivo con la prua, non verso l’ignoto, ma verso la morte, il nero, una tomba di 14 miliardi di anni, un sarcofago sigillato con strane geroglifici di costellazioni sulle pareti di questo mausoleo.
Non capivo neanche io bene perché, ma era l’insofferenza verso questa mania ad avere paura e fermarsi al palo dell’esistenza a imitare i cani che abbaiano da dietro le sbarre del cancello del loro cortile, prigionieri di regole stupide che abbaiano spaventati a questa pantera nera sinuosa che si muoveva oltre le sbarre del pianeta: il nulla, il vuoto cosmico totale, il cielo nella sua accezione più pura e nera.
Quando come un felino la notte scende sui tetti e preda gli ultimi scampoli di luce il cielo è vicino.
Ma io me ne fottevo.
La prima cosa di cui mi sono stupito è il silenzio.
Un silenzio che riporta alla realtà.
Se sulla terra sei distratto da milioni di queste note, di questi flauti, di questi rumori, qui no.
Non era più tempo di parole.
Ne’di musiche.
Ne‘di suoni.
Il nero profondo me l’aspettavo, lo aspettavo al varco il nero assoluto tra un puntino bianco e l’altro, il silenzio no.
Mi addormentai ben presto con la chiara intenzione di nascondere alla mia coscienza che non ero lì, spinto dalla noia e dal sonno, con il caldo e luminoso abitacolo del mio vascello come una nuova casa.
Quando mi svegliai mi dimenticai bene dov’ero, perchè fui svegliato come dalla luce del mattino terrestre che filtrava fastidiosa dalle finestre del mio abitacolo, credevo di essere a “casa”.
Mi dimenticai di essere partito per il nulla alla ricerca di vita nell’universo.
Che fastidio, la luce, il mattino, già il cuore mi palpitava all’idea delle cazzate da compiere, già temevo di dover preparare il caffè già la luce mi feriva gli occhi, inutile e inopportuna come sempre.
Andai al bagno rimbambito senza avere ben chiara la situazione.
Mentre mi sedevo sulla tazza guardai fuori dalla finestra, entrava luce, ma il cielo era nero…
Sgranai gli occhi…ah diamine… ebbi per una volta un respiro di sollievo, già…
Sono partito alla volta del nulla cosmico e questa è la prima stella che incontro, posso risparmiarmi il caffè, mi sveglio benissimo da solo forse questa luce è diversa, forse.
No per nulla.
C’era un puntino luminoso sopra questo sole, o meglio, questa stella identica al sole e vi assicuro che le stelle non te le figuri mai come il sole fin quando la loro luce non ti filtra dalle finestre.
Per dirla tutta la luce pareva identica.
Il puntino luminoso si ingrandì fino a diventare un grande pianeta azzurro come il “nostro”.
Scesi su di un continente giallo.
Apro lo sportello, il deserto, comincio a ispezionare quel mondo, come lo ispeziono, bho, per incominciare da buon mammifero segno i confini facendoci una bella pisciata sopra.
Gran ispettore…di vita aliena, neanche un baffo.
L’urina colo’ sul crinale di una duna, unica espressione più che di una volontà di potenza derisa, di una volontà di esistenza beffata.
Presi a camminare nel deserto.
Mi sedetti.
Nulla in sto posto.
Nulla.
Niente.
C’era quella bella immagine buddhista di un isola all’Occidente dell’universo in cui il Buddha Amithaba trasforma nel colore del rosso del tramonto accendendo il nero spento dell’universo, nel rosso del tramonto da un rubino sulla sua fronte.
Non funzionava così.
Lasciato il pianeta vuoto alla volta del vuoto assoluto, il gelo il freddo.
Nessuna illuminazione.
Si forse Buddha era lì lontano, in uno di quei puntini luminosi, forse il messia era nato in uno di quegli altri ed io come un eremita stavo in quella caverna gigante.
Già.
Pensavo le stesse cose sulla terra.
Uno dopo l’altro mi resi conto di stare vivendo una routine peggiore di quella della terra, dormivo della grossa e non volevo svegliarmi quando i raggi di luce di un nuovo sole facevano capolino, per esplorare.
Deserto.
Sassi.
Crateri.
Dune.
Non un minareto o un muezzin e qualcuno che gridasse che Allah è grande e ci chiamasse a una preghiera, il deserto violento, nella sua estemporanea bellezza, ammutolita da questo estraneo che ero io e basta.
Mi contemplava forse.
Mi chiedevo al tremilesimo mondo visitato se la vera forma di vita fossero le nuvole.
“Forse ho sbagliato il concetto di vita mi dissi” “ovunque vada le vedo” “da sopra i colli troneggiano divine come arabeschi di un alfabeto nuovo”.
Inconsistente.
I soli si spegnevano.
Migliaia di albe, di tramonti, su miliardi di mondi, è solo vento e ombre.
Viaggiavo fra nebulose tanto meravigliose, quanto inconsistentemente vuote, andava sprecato tutto.
Io sarei morto in questo cimitero tanto meraviglioso quanto insulso.
Cercai di ribaltare i concetti di vita e di morte migliaia di miliardi di volte senza successo.
A ogni nuova alba reagivo con un caffè triplo, per cercare di svegliarmi dal coma cosmico del nulla.
Senza successo.
Un altro mondo visitato un altro nulla.
Dentro di me rimpiangevo la terra, e pensai che c’era una sola cosa che rivaleggiava con la grandezza dell’universo, era il dolore dell’uomo.
Una roba agghiacciantemente enorme, senza confini, perimetri dimensioni.
Vomitai il caffè nero sulle ennesime dune, mi prese l’angoscia e caddi in posizione fetale.
Convulsioni.
Vieni mamma, pensai, vieni a prendermi che ho sbagliato.
Chiusi gli occhi con le lacrime agli occhi.
Ero paralizzato.
Il vento ricopri il mio corpo di sabbia.
Vieni mamma, pensai, non ce la facevo più a muovermi, mentre mi spegnevo in questo ventre nero immenso.
Fui consapevole che era la fine.
Fui consapevole che era l’inizio.
Fuori piove.
Il mio corpo si disfece nell’ovulo di quel pianeta annidato nascosto nell’ utero immenso chiamato cosmo.
Potevo sentire il corpo di mia madre che si toccava la pancia con una mano al di là delle pareti nere del cosmo ed il silenzio era il liquido amniotico in cui avevo nuotato era intervallato dal battito del suo cuore.
Era questo il significato di quelle note che avevo sentito, questa la genesi di ogni musica.
La razza umana si era estinta da 4 miliardi sulla terra anni come spermatozoi su un profilattico azzurro.
Le mie cellule erano arrivate all’ovulo vero.
Sul pianeta si stavano fondendo e moltiplicando dando luogo ad una reazione di crescita esponenziale.
Sentivo il battito anche del mio cuore di mia madre e nulla era più caldo di questa immensità nera che velocemente stavo riempiendo, in cui dormivo e a cui un altra luce mi avrebbe svegliato.
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